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JANEK SKARZYNSKI/AFP/Getty Images
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Giorno della Memoria: la sacralità dei nomi

Raramente rivedrò Gerusalemme come l’11 maggio del 2009. La città era un rendering lunare e appariva totalmente disabitata per chi, come me, la osservava da un monitor di sicurezza mentre il convoglio di Benedetto XVI correva verso Yad Vashem, il Memoriale della Shoah.

Come d’uso la Santa Sede aveva anticipato, sotto embargo, il discorso del Papa. In attesa che il convoglio raggiungesse la sua meta, avevo iniziato a leggere senza molta convinzione quello che mi aspettavo fosse un discorso convenzionale, come le precedenti tappe di quel viaggio apostolico senza bagliori.

Invece Joseph Ratzinger quel giorno attinse alla sua icastica intelligenza teologica e parlò di cosa sono e significano i nomi citando Isaia, il libro forse più carismatico della Bibbia, il libro messianico.

Il valore dei nomi

Disse il Papa: “Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari (…) i loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio.”

D’altronde, per ebraismo e cristianesimo, il veicolo per il mezzo del quale Dio si rivela da principio nelle Scritture è precisamente il suo nome.

Yad Vashem è tratto da Isaia: “Io darò loro, nella mia casa e tra le mie mura, un monumento (yad) e un nome (shem) più che se fossero figli e figlie; io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato.

L’Albero della Vita del ghetto di Budapest, voluto da Bernard Schwartz, famoso agli onori del mondo come Tony Curtis, riporta incisi sulle foglie i nomi delle vittime dell’Olocausto lì consumato e illumina il significato delle parole di Ratzinger soprattutto per le foglie rimaste intonse, senza nome. Nella mente di Dio, nessun nome manca.

Nel cuore, nessuna croce manca

Possiamo oggi rileggere Ungaretti, che frequentò la metafisica e l’orrore della Grande Guerra, quando scrive: “Ma nel cuore/nessuna croce manca”, e poiché la laicità è una vasta pianura fertile, anche Paul Éluard: “Il fallait bien qu’un visage/Réponde à tous les noms du monde.”

Nella diaspora che ha tessuto il mosaico dell’Europa oltre il Volga, la meno nota, dove l’ebraismo incontrò la terra barbarica (per dirla con Karol Modzelewski), le parole si sono tramandate nell’equilibrio tra l’autorevolezza della Tanakh e quello dell’yiddish gergale, la lingua imprecisa che ha unito i destini tragici della borghesia assimilata, dei mercanti e dei bohémien, a milioni caduti nella Shoah.

Yad Vashem è un’espressione passata poi dai campi profughi post-conflitto prima della nascita di Israele, prima del viaggio verso l’ancestrale terra promessa.

Yad Vashem come il linguistic turn dell’identità ebraica, la babele linguistica dove “ваш” è anche un banale pronome plurale della lingua russa di pronuncia quotidiana e rimanda all’immensa regione russofona in perenne contraddizione tra pogrom e accoglienza, o all’Armata Rossa che varca il cancello di Auschwitz in quel gelido 27 gennaio del 1945.

Ma Yad Vashem è anche un balsamo a lento rilascio, che vede per Yad (יד) l’omonimia col puntatore che si usa per leggere la Torah, oppure le varianti di Shem (שם), che l’yiddish – caravanserraglio dell’ebraismo errante - declina nei sinonimi di reputazione, fama, prestigio o nello stesso nome divino.

Il significato

La sacralità dei nomi e la loro unicità: questo è il messaggio profondo del Giorno della Memoria, perché nessun nome manca nella mente di Dio come ci ricordava Joseph Ratzinger a Gerusalemme: “io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato”.

È una visione potente che allude forse all’inaccessibilità del Dio di Lutero, ma è confortante. La Memoria, in altre parole, come forma della Grazia. Un insegnamento anche per i laici.

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