Gabriella Pession: «La porta rossa, il ritorno in Italia, la mia evoluzione»

Per gli aficionados de La porta rossa, la terza puntata della terza e ultima stagione della serie ideata da Carlo Lucarelli e Giampiero Rigosi è un appuntamento chiave. Perché un altro colpo di scena coinvolgerà Cagliostro (Lino Guanciale) e soprattutto Anna, protagonista di una svolta clamorosa. «Ma non posso spoilerare assolutamente nulla», dice a Panorama.it Gabriella Pession, che interpreta Anna Mayer nella fiction di Rai2 in onda mercoledì 25 gennaio. «Anna è un personaggio complesso, una donna evoluzione, uno di quelli da cui ho fatto fatica a staccarmi», rivela. Insomma, c’era una volta l’eroina dei melò, oggi c’è un’attrice in grande fermento – complici anche i tre anni vissuti a Los Angeles - che lavora a tanti nuovi progetti, tra cui un film e una serie tv di cui sarà non solo la protagonista ma anche la sceneggiatrice.

Gabriella, sulla sua scrivania ci sono otto nuovi progetti. È una stakanovista o semplicemente non riesce a stare ferma?

(ride) «La verità è che sono terrorizzata dalla noia. Il mio desiderio più grande è restare presente a me stessa, capire cosa voglio raccontare come attrice e produttrice e trovare la mia voce».

Fino ad ora non c’era riuscita?

«Solo in parte. Quando ero giovane facevo anche quattro fiction l’anno, tutte belle, ma nel profondo sentivo di essere altro. Non sono l’eroina del melò, anzi, sono tutto l’opposto della donna stereotipata e caramellosa. Così ho cercato personaggi complessi, controversi: quando non ci sono riuscita, ho preferito dire dei no e fermarmi».

Anna Mayer de La porta rossa, la vedova di Cagliostro, è un personaggio che ha sentito subito nelle sue corde?

«Sì, perché è una donna in evoluzione, che si mette in discussione. Poi c’è un lato ambiguo, deve capire le sue priorità. Io e il pubblico l’abbiamo lasciata tre anni fa in un modo e l’abbiamo ritrovata in un altro: ha elaborato il lutto, sta cercando di cambiare vita dopo aver perso tutto. La vera domanda è se riuscirà a liberarsi di Cagliostro».

La risposta potrebbe arrivare proprio nella puntata di stasera.

«Forse sì, o forse no. Non voglio spoilerare nulla ma ci sarà un grande colpo di scena».

L’elaborazione del lutto e il distacco dagli affetti sono uno dei temi chiave della serie: per renderli più verosimili, durante le riprese si aggrappa all’esperienza personale o al mestiere?

«Mi appoggio al mestiere ma restando presente a me stessa e a chi ho di fronte. Ho in mente, ad esempio, una scena molto intensa girata con Lino Guanciale nella prima stagione: dovevamo sentirci ma senza poterci toccare – visto che Cagliostro è un fantasma – e ricordo la potenza di quella intimità non verbale, fatta di ascolti e silenzi. Dopo l’ultimo ciack, abbiamo pianto tutti. Certo, poi c’è una connessione col proprio vissuto».

Nel suo caso, il lutto più doloroso?

«La morte di mio padre. Lui era anche un pittore eccezionale e il legame non si è mai spezzato proprio grazie all’arte. Lo ritrovo quando insegno a mio figlio cos’è l’indaco. E mi emoziono».

La porta rossa è un unicum: verità e paranormale si mescolano ed è un tipo di racconto non sempre compreso dal pubblico italiano. Come se l’è spiegato il successo della serie?

«Quando hai una scrittura solida come quella di Lucarelli e Rigosi, hai già fatto centro. Il paranormale c’è ma non è mai ridonante o melodrammatico, è un racconto asciutto, quasi nordico. A tutto ciò si somma una grande storia d’amore spezzata dal lutto e personaggi pieni di imperfezioni e di sfumature. Il bianco o nero non è esiste».

L’ultima stagione della serie segna il suo ritorno in Italia dopo tre anni vissuti a Los Angeles. È tornata per rimettere radici?

«Sì. Nonostante Los Angeles sia una città meravigliosa, mi è mancata molto Roma e l’Italia in generale. Ad un certo punto ho capito che non mi andava più di far crescere lì mio figlio. Né di vivere con l’ansia e il terrore. E lo dico da cittadina con doppio passaporto, italiano e americano, essendo nata in America».

A cosa si riferisce?

«Non è stato facile trasferirsi in piena pandemia, durante la quale c’è stato anche un aumento dell’acquisto di armi. Ad un certo punto ti abitui a tutto, sai che può capitare di essere al supermercato ed entri uno armato di fucile, ma è arrivato un momento in cui io e mio marito (l’attore Richard Flood, ndr) abbiamo fatto una scelta precisa».

Le è capitato di assistere a scene violente?

«Ho quasi assistito a due sparatorie molto grosse, con strade chiuse ed elicotteri sopra la testa. Le classiche scene da film».

A parte questo, cosa le è piaciuto di meno degli anni a LA?

«Nonostante fossi con la mia famiglia, ho sofferto la solitudine, lo ammetto. E ne ho vista tanta intorno a me. LA è una landa sconfinata di persone che si incontrano e si sfiorano. Tutti cercano di fare carriera, è una grande fabbrica illusioni in cui è facile scambiare per obiettivi concreti quelli che sono solo miraggi».

Lei ha recitato in alcune serie tv americane: è ancora così difficile uscire dal cliché cui sono agganciati i personaggi italiani?

«Sì, sono ancora fermi a determinati stereotipi. E pensi che io sono bilingue e non ho un accento marcato. C’è ancora un pregiudizio sugli italiani che vengono visti e raccontati sempre nella stessa maniera. Mi arrabbio ma sta anche a noi fare un racconto diverso, senza premere sugli stessi cliché».

Cosa si è portata dietro dall’America?

«La grande libertà di poter scegliere chi vuoi essere: c’è molto meno giudizio lì, gli attori non si limitano, si inventano e si reinventano. Per questo considero normale essermi fermata per un po’ a capire chi fossi e che cosa volevo essere».

Cos’ha capito?

«Che la competizione spinta del passato non mi apparteneva più molto. Preferisco creare da zero qualcosa che parta da me, voglio essere il motore e la marcia dei miei progetti. Protagonista sì, ma se posso anche produttrice esecutiva di ciò che faccio. Sono in grande evoluzione».

Che tradotto, cosa significa?

«Guardi, sul tavolo ho otto progetti, alcuni meno concreti, altri di più. Ad esempio, sto lavorando con altre tre sceneggiatrici ad una serie tv, una dramedy prodotta da Endemol per la Rai. E in contemporanea sto scrivendo il mio primo film, incentrato sul rapporto con mio padre. Un impulso forte l’ho avuto anche grazie all’influenza di mio marito: lui ha studiato scrittura a Oxford, mi ha spinto a scrivere, a raccontare storie, a mescolare stili e mezzi».

Il suo grande amore?

«Il teatro. Lì mi sento a casa».

La sua delusione professionale più recente?

«Quando hanno spostato Oltre la soglia in seconda serata. Per me quella serie è il progetto più importante e coraggioso che ho fatto. Ho amato il mio personaggio, sono stata orgogliosa di parlare di malattia mentale ed è stato importante che Mediaset ci credesse. Purtroppo, gli ascolti non ci hanno premiato. Ma è stato emozionante essere fermata da diversi ragazzi che hanno visto la fiction e mi hanno ringraziato per aver provato a scardinare qualche tabù».

Ultima curiosità: sbirciando su Instagram c’è una sua foto con Rafa Nadal. Che ci faceva nella sua accademia di tennis?

«Durante la pandemia mio figlio, Giulio, ha iniziato a giocare a tennis. Gli è esplosa una passione assurda che ci ha contagiato, anche se inizialmente ero perplessa perché da ex pattinatrice ed ex atleta conosco la pressione e lo stress che subiscono i giovani sportivi. È finita che in famiglia ci siamo tutti appassionati a Rafa, alla sua storia e al suo carisma così siamo andati nella sua academy dove per altro quel giorno c’era anche lui. È un grande campione in campo e anche nella vita, un esempio di garbo, stile e resilienza. Una parola e un concetto che amo molto».

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