Il vero problema di Facebook con le persone grasse

Che ci crediate o meno, Facebook ha un problema con le persone grasse. Dopo aver schivato un polverone l’anno scorso, eliminando in zona Cesarini una faccina col doppio mento dal novero delle emoticon connesse agli aggiornamenti di status, ora ha tirato direttamente un calcio al vespaio disperdendo un nugolo di polemiche in tutta la rete.

Le cose sono andate così: lo scorso 16 maggio l’associazione femminista australiana Cherchez La Femme crea un evento Facebook per un’iniziativa chiamata Feminism and Fat, e sceglie come foto di copertina l’immagine di una modella plus-size, Tess Holiday, che posa in bikini. Il gruppo cerca di sponsorizzare l’evento ma nel giro di pochi giorni riceve una comunicazione da Facebook che spiega che l’evento non può essere sponsorizzato poiché l’immagine scelta è inappropriata:

Gli ad non dovrebbero mostrare uno stato di salute o un peso corporeo che sia troppo perfetto o estremamente indesiderabile” si legge nel comunicato “Ads come questo non sono ben accetti perché fanno sentire a disagio con se stesso chi li vede. Vi raccomandiamo di utilizzare un’immagine diversa, ad esempio una persona che corre o che usa una bicicletta.”

Difficilmente Facebook avrebbe potuto dare una risposta peggiore, considerando che si trattava di un evento volto proprio a promuovere la “body positivity”, ossia l’inclinazione ad adottare un’attitudine più indulgente e assertiva nei confronti del proprio corpo. Il Body Positive Movement è un movimento femminista nato con l’intento di contrastare fenomeni social come il “body shaming” (l’atto di discriminare persone perché non hanno una silohuette in linea con un supposto standard di normalità) e in particolare il “fat shaming” (l’atto di discriminare le persone sovrappeso, identificandole come poco rispettose verso se stesse, deboli, inadatte e persino poco intelligenti).

Naturalmente, il movimento non ha tardato a rispondere al fuoco, e Facebook ha prontamente fatto marcia indietro, scusandosi per l’errore e ammettendo che non esisteva nessuna ragione valida per bloccare la sponsorizzazione. Ma il calcio al vespaio ormai è stato dato e le polemiche stentano a rientrare.

Non è la prima volta che il social network di Menlo Park si caccia in un simile ginepraio: nell’ottobre del 2014 Facebook aveva scatenato la rabbia della comunità LGBT dopo aver obbligato utenti transgender a utilizzare il proprio nome di battesimo sul social network; anche allora, la comunità si era organizzata e, per scongiurare disastri, Facebook aveva fatto marcia indietro.

Ora Zuckerberg e soci si trovano al centro di un’altra polemica, in cui rivestono l’improbabile ruolo di body shamers. Dico “improbabile” per non dire “assurdo”, perché è chiaro a chiunque con un po’ di criterio che difficilmente un colosso macina-dati (e introiti) come Facebook può avere una posizione definitiva su questioni politiche e sociali. Trattare un social network come se potesse fare da portabandiera per qualsivoglia battaglia è un atteggiamento non solo sbagliato, ma pure miope.

La realtà è che a Facebook non frega nulla che si sia etero, gay, transgender, socialista, pro-Trump, anti-Trump, magro, grasso, anoressico, salutista o carnivoro; a Facebook interessa che si continui a pascolare nel suo recinto senza creargli troppi problemi di immagine.

Se esiste una policy che pone barriere all’approvazione di un ad, è per evitare che l’azienda possa essere accusata di ricavare denaro dallo sfruttamento di immagini non appropriate (e dai concetti ad esse associabili), che si tratti di immagini violente, pornografiche, o che esaltino una condotta di vita deleteria, come potrebbe essere l’immagine di una modella anoressica che si vanta di nutrirsi solo di germogli di soia.

Il confine tra ciò che è considerabile appropriato o meno è molto labile, e può succedere che l’immagine di una modella sovrappeso venga scambiata per inappropriata (dal momento che l’obesità è un problema molto serio, pari all’anoressia). In questo caso era sufficiente considerare il contesto per capire che l’immagine non andava bloccata (non si stava promuovendo una gara di cibo ipercalorico, ma l’accettazione di un’immagine corporea diversa dagli standard della carta patinata), ma il problema rimane.

La vera domanda da porsi dunque non è se Facebook stia adottando un comportamento discriminatorio, ma se debba aver titolo a piazzare i paletti della censura, e soprattutto, chi e come possa decidere dove questi paletti vadano posizionati.

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