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Le guerre commerciali di Donald Trump

Youngstown, cittadina dell’Ohio nel cuore della Rust Belt, la «cintura della ruggine» epicentro della crisi dell’industria pesante, era un feudo democratico che non eleggeva un candidato repubblicano da quando Richard Nixon vinse le elezioni del 1972. Nel 2016 gli elettori hanno deciso di fare il salto anti-sistema scegliendo il cambiamento incarnato da Donald Trump. E a tre anni di distanza, il presidente americano sembra contare su un sostegno sempre più granitico delle tute blu nello Stato, anche grazie alle sue aggressive politiche commerciali, contro cui le cassandre di Washington puntano il dito paventando rimbalzi dei prezzi e perdita dei posti di lavoro.

Le partite aperte nella crociata del tycoon per rimodellare le relazioni commerciali degli Stati Uniti prima delle elezioni del 2020 non riguardano soltanto la Cina, cui The Donald ha alzato i dazi al 25 per cento su 200 miliardi di dollari di importazioni, ma spaziano dall’Asia al Vecchio continente. Nelle settimane scorse, Trump ha deciso di far slittare di sei mesi i dazi sulle auto europee e giapponesi, mentre proseguono le trattative. C’è però lo spettro di tariffe su 11 miliardi di dollari di prodotti europei che, dice un’analisi della Coldiretti, potrebbero colpire il 50 per cento dei cibi made in Italy negli Usa (mercato dove nel 2018 si è registrato il record per un valore di 4,2 miliardi).Nel mirino vini come Prosecco e Marsala, formaggi, olio di oliva, agrumi e marmellate.

Inoltre, nel suo rapporto semestrale, il Dipartimento del Tesoro americano ha esteso la lista dei partner commerciali le cui politiche economiche e valutarie sono monitorate da Washington per individuare pratiche ingiuste o squilibri eccessivi. Nelle cinque «new entry» è finita anche l’Italia, oltre a Irlanda, Vietnam, Singapore e Malesia, che si aggiungono a Cina, Giappone, Corea del Sud e Germania. Svizzera e India invece sono state rimosse. Riguardo all’India, nonostante l’apparente amicizia con l’appena rieletto premier Narendra Modi, Trump ha deciso che dal 5 giugno non può più godere di una posizione commerciale preferenziale con gli Usa, che le permetteva di essere esentata da miliardi di dollari in dazi.

Le discussioni tra i due Paesi sul protezionismo effettuato da New Delhi sono andate avanti per mesi, e la misura rischia di colpire alcuni esportatori di prodotti come tessuti, gioielli, ricambi per auto e prodotti agricoli, ma anche pannelli solari e lavatrici.

E Trump ha deciso di ricorrere all’arma dei dazi anche per cercare di fermare l’immigrazione illegale, annunciando a sorpresa tariffe al 5 per cento su tutto il made in Mexico che entra negli Stati Uniti. Dazi che saliranno gradualmente fino al 25 per cento in ottobre, e resteranno in vigore sin quando la crisi non sarà risolta. Le merci più esportate dal Messico verso gli Usa sono veicoli e componenti, per un valore di 93,3 miliardi di dollari nel 2018, ma in totale gli Stati Uniti ogni anno importano dalla nazione confinante beni per circa 346 miliardi di dollari. Le tariffe al 5 per cento valgono quindi più di 17 miliardi, mentre quelle al 25 cento quasi 86 miliardi.

«Per sfuggire ai dazi le case automobilistiche torneranno negli Stati Uniti» chiosa il presidente. E il «falco» consigliere sul commercio, Peter Navarro, assicura che «sarà il Messico a pagare, non gli americani». Da parte sua il capo di gabinetto ad interim della Casa Bianca Mick Mulvaney è convinto che «i dazi sull’immigrazione sono un tema completamente separato da quello commerciale».

La mossa, con cui il presidente vuole tentare di mantenere la promessa fatta agli elettori sulla lotta ai clandestini in mancanza (per adesso) dell’agognato muro al confine sud, rischia tuttavia di far fallire le trattative in Congresso per la ratifica dell’accordo di libero scambio con Canada e Messico, ovvero il nuovo Nafta.

Tuttavia, mentre gli avversari di Trump continuano a ripetere come un mantra che le politiche aggressive sui dazi potrebbero causare enormi sconvolgimenti economici, alcuni analisti spiegano che la questione è molto più complessa.

«Contrariamente a quanto si creda, i dazi non sempre fanno aumentare i prezzi» dice a Panorama Ravi Batra, docente di economia internazionale alla Southern Methodist University di Dallas, in Texas, e autore di sei bestseller. Prendendo ad esempio le conseguenze dei dazi imposti da Trump su quei 200 miliardi di beni cinesi, afferma: «Le tariffe hanno due effetti principali sui prezzi: uno tende ad alzarli, l’altro ad abbassarli, e l’impatto complessivo dipende da quale è più forte». «Tutto si riduce alla fornitura e alla domanda di beni in Cina» continua lo studioso. «Gli Usa sono un grande importatore di prodotti del Dragone, quindi i dazi causeranno un enorme calo della domanda americana di beni cinesi per il rialzo iniziale dei prezzi. Ma con il calo sostanziale della domanda, anche i prezzi dei beni esportabili all’interno della Cina diminuiranno sensibilmente».

Per Batra il consumatore americano non ha nulla di cui preoccuparsi, soprattutto quando può facilmente passare alle importazioni da altri Paesi. E sottolinea ancora: «I grandi deficit commerciali con la Cina hanno falcidiato la produzione e i salari americani. Le industrie Usa hanno bisogno di risvegliarsi e i dazi sono indispensabili per questo scopo. Nel 1900 gli Stati Uniti erano tra le nazioni con il più alto tenore di vita, e anche se le tariffe erano elevate i prezzi sono diminuiti o sono rimasti stabili per diversi anni».

Quando dazi anche del 60 per cento non hanno danneggiato il consumatore americano, è il ragionamento di Batra, come possono danneggiarlo tariffe al 25 per cento? E conclude così : «Il libero scambio è stato il Santo Graal dell’economia internazionale per decenni, ma storicamente, la crescita più rapida dello standard di vita in America si è verificata sotto l’ombrello dei dazi».

Queste teorie non convincono i detrattori, secondo cui l’America First di Trump non farà altro che deprimere ulteriormente alcune zone del Paese come la Rust Belt. Ma nonostante le loro fosche previsioni, proprio nella «cintura della ruggine» sembra che la roccaforte degli elettori del presidente, rappresentata dalla classe operaia, si stia rafforzando.

Una conferma inaspettata arriva persino da esponenti democratici, costretti ad ammettere che la sua politica aggressiva contro la Cina gli sta appunto permettendo di consolidare proprio il sostegno delle tute blu in Ohio, uno degli Stati che ha strappato alla sinistra nel 2016.

«Il partito democratico ha perso la propria voce per parlare alle persone che fanno la doccia dopo il lavoro e non prima del lavoro» spiega l’ex leader dell’Asinello nel nord-est dell’Ohio, David Betras. «Lui dice “combatto con la Cina per darvi un lavoro migliore”, e a loro non interessa nulla delle sue dichiarazioni dei redditi». Tutto questo nonostante l’Ohio fatichi a recuperare, mentre nel Paese l’economia va a gonfie vele, e la perdita di 1.600 posti di lavoro a marzo in uno stabilimento della General Motors, malgrado gli sforzi di Trump per salvarli, sia stato l’ultimo colpo. Ma proprio questa condizione, sostiene il New York Times, è il segnale di quanto sia stretto il legame del tycoon con elettori che un tempo erano convinti democratici. Trump sta «prendendo a pugni in faccia» la Cina con i dazi, mentre «per il nostro principale candidato Pechino non è un problema» afferma il deputato dell’Ohio Tim Ryan, in lizza per le primarie democratiche di Usa 2020, riferendosi alle affermazioni dell’ex vice presidente Joe Biden, il quale ha minimizzato la minaccia economica globale rappresentata dal Dragone. «Se andiamo alle elezioni facendo nostro questo messaggio, ci batteranno di nuovo» mette in guardia, dicendosi d’accordo con l’inquilino della Casa Bianca che la Cina rappresenti per gli Usa la minaccia numero uno.

Ryan accusa Trump di non aver elaborato un piano per ricostruire il settore industriale a stelle e strisce, in particolare in zone depresse come il nord-est dell’Ohio, dove un tempo le acciaierie si estendevano per decine di chilometri lungo il fiume Mahoning, e dove poi sono stati bruciati decine di migliaia di posti di lavoro. Ma riconosce anche che «le comunità sono state abbandonate e ignorate, e hanno votato per lui perché almeno sta dando pugni in faccia a qualcuno, cosa che nessun altro lo fa».

Tra questi elettori c’è Darrell Franks, meccanico in pensione di Vienna, cittadina a nord di Youngstown, che una volta era democratico, ma ora vota repubblicano. «Ciò che voglio da un presidente è che il resto del mondo lo guardi e dica “Non scherzare con quel tizio, te la farà pagare”. Non voglio una persona più gentile, non voglio una “femminuccia”». La battaglia per la prossima presidenza, date queste premesse, sarà epica.

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