Biden detta la linea ad Israele ma rischia di perdere le elezioni

«Bibi, hai avuto la tua vittoria. Abbiamo intercettato tutti i lanci e neutralizzato la minaccia. Non c’è alcun bisogno di reagire. Siamo al vostro fianco con impegno ferreo nel garantire la sicurezza di Israele. I nostri nemici non possono minacciare in modo efficace la sicurezza di Israele».

Questo è il senso della telefonata che Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, ha fatto nella notte della rappresaglia iraniana alla sua controparte israeliana. «Abbiamo intercettato, abbiamo contenuto, insieme vinceremo» è stata però la risposta sibillina di Netanyahu. Come a dire che risponderanno in ogni caso all’aggressione. Il gabinetto di guerra di Gerusalemme, ridotto all’osso per ragioni di sicurezza, avrebbe infatti già preso una decisione in tal senso, che vedremo prendere forma probabilmente nelle prossime settimane.

I toni paternalistici di Biden, insomma, non pare abbiano fatto esattamente breccia nel fronte israeliano. In ogni caso, il presidente degli Stati Uniti ha agito in maniera molto avveduta, nel solco di quell’approccio prudente in situazioni di crisi internazionali che ha già contraddistinto tanto la presidenza Obama quanto quella di Trump. Gli Stati Uniti, nel segno della continuità in politica estera, non intendono più farsi trascinare in guerre logoranti a migliaia di chilometri di distanza per difendere militarmente un obiettivo geopolitico. Anche se si tratta di difendere un alleato «speciale» come Israele.

Certo, questo non significa un disimpegno nel combattere ogni minaccia all’America e ai suoi alleati. E difatti sono stati gli Usa a lanciare l’allarme per tempo, segnalando a Israele e al mondo intero che Teheran aveva armato droni e missili e che entro 48 ore avrebbe attaccato. Alla stessa maniera, aveva avvertito Kiev e il mondo intero dell’imminente invasione della Russia, e così anche aveva avvertito Mosca dell’attentato terroristico che l’Isis aveva in serbo per loro. Tutto questo grazie alla superiorità tecnologica del suo sistema di difesa: satellitare, anzitutto, ma non soltanto.

Se gli occhi e le orecchie americane osservano e registrano praticamente «tutto» e dunque possono con ragionevolezza conoscere e prevenire minacce sensibili per tempo, non possono però prevedere la reazione delle persone, cioè dei governi coinvolti. Cosa pensa di fare davvero Netanyahu? Quale sarà la risposta all’attacco senza precedenti dell’Iran contro Israele? Questo l’intelligence Usa non lo sa dire, e potrebbe non saperlo neanche gestire. Vedi l’invasione israeliana della Striscia di Gaza: sconsigliata, disapprovata e più volte condannata dall’Amministrazione Biden, non ha impedito che avvenisse in ogni caso.

Quella di Teheran è stata ufficialmente una rappresaglia. Infatti, «la questione può dirsi conclusa. Tuttavia, se il regime israeliano dovesse commettere un altro errore, la risposta dell’Iran sarebbe notevolmente più severa. È un conflitto tra l’Iran e il regime canaglia israeliano, dal quale gli Stati Uniti DEVONO STARE LONTANI» ha sottolineato Teheran, citando in punta di diritto l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite relativo alla legittima difesa. Ciò nonostante, il governo americano sa bene che l’escalation in corso Medio Oriente è di portata storica. Mai l’Iran aveva sfidato così apertamente Israele e dato luce verde a un atto di guerra dalle conseguenze impredicibili per gli stessi iraniani. E dunque Washington si aspetta anche che Israele non ascolti i saggi consigli del loro migliore amico.

Come abbiamo già visto per la risposta alla morte del generale Suleimani per mano degli americani, gli iraniani seguono ieri come oggi lo schema di una «retaliation» diretta ma molto limitata, che difatti questa notte non ha fatto neanche una vittima o provocato alcun danno. Sminuendo i Pasdaran stessi la portata della loro azione dimostrativa, hanno chiarito di non avere la reale intenzione di impegnarsi in un conflitto diretto con Gerusalemme, il che appare sufficiente agli occhi del Pentagono e della Casa Bianca.

Tuttavia, l’attacco costituisce comunque un precedente pericolosissimo e apre all’inedito anche per gli americani. Anzitutto, perché pone un grande dilemma a Israele. Come rispondere adesso? Soprattutto, come difendersi nel lungo periodo? L’operazione a Gaza sta già logorando le forze armate israeliane, e i fronti da difendere – Gaza stessa e West Bank, il sud del Libano, la Siria – sono già piuttosto numerosi anche senza l’Iran.

Se ora è chiara qual è la linea rossa per la Repubblica islamica, lo stesso non può dirsi per Israele. Secondo la mentalità israeliana, questo atto ostile rafforza (perché la dimostra) la tesi secondo cui Teheran intende cancellare Israele dalle mappe geografiche. E se anche la portata dell’attacco è stata assai moderata, Gerusalemme non può tollerare di essere minacciato in modo permanente. Per cui potrebbe trattare l’Iran alla stessa maniera di come tratta tutti gli altri nemici: come per Hamas, potrebbe essere giunto il momento della resa dei conti. Attacchi preventivi per disinnescare il rischio che si ripeta un simile scenario.

Se Israele opterà per una simile risposta muscolare, verosimilmente preannunciandola (ma non coordinandola) con Washington, questa potrebbe nella migliore delle ipotesi avere come obiettivo non tanto il territorio iraniano quanto invece le sue milizie per procura in Yemen, Siria e Libano. In questo caso, Washington non avrebbe ragione di fermarli. Più preoccupante e plausibile, tuttavia, è lo scenario già delineato dal ministero degli Esteri israeliano: «Se l’Iran attacca il territorio israeliano, Israele attacca il territorio iraniano». Occhio per occhio, insomma. Con l’evidente conseguenza che Teheran sarebbe costretto a rispondere nuovamente, gettando il Medio Oriente in una spirale di guerra allargata che è a tutti gli effetti l’incubo dell’Amministrazione Biden.

Quando l’ayatollah Khomeini prese il potere con la rivoluzione del 1979 puntò subito il dito contro Usa e Israele, e ne ebbe un vantaggio in chiave interna. Non si sognava di ingaggiare uno scontro diretto con Washington e Gerusalemme, tuttavia attaccò l’ambasciata americana a Teheran e prese in ostaggio i 53 dipendenti dell’ambasciata per far comprendere al mondo che i tempi erano cambiati. Il presidente Carter allora scelse un approccio simile a quello di Biden: temporeggiare, per poi scegliere l’opzione meno drastica: mandare le forze speciali americane a liberare gli ostaggi del regime khomeinista. Ma la missione fu uno spettacolare fallimento, il più grave nella storia delle forze speciali americane. Anche se il presidente Carter fino a quel momento era stato riconosciuto per l’abilità diplomatica e la capacità conciliatoria - solo un anno prima era riuscito a far firmare una pace molto importante tra Israele ed Egitto - la sua strategia di pacatezza e moderazione con l’Iran, seppur inizialmente apprezzata, gli costò la presidenza. Gli ostaggi infatti sarebbero stati liberati soltanto un anno dopo, dopo lunghe e difficili trattative diplomatiche.

Netanayhu conosce bene questa storia, e sa bene che gli ayatollah capiscono solo la forza: i suoi governi (come anche quelli dei suoi colleghi) hanno già compiuto sabotaggi e incursioni in Iran per fermare il loro programma nucleare, e niente fa pensare che questa volta sarà diverso. La vecchia generazione di politici iraniani, gli ayatollah ma ancor più ii Pasdaran - ovvero la casta religiosa la prima e militare la seconda che «possiedono» la Repubblica islamica - non poteva permettersi di scatenare guerre che non poteva vincere (come imparò meglio nello scontro con l’Iraq) e preferiva concentrarsi sugli affari interni e sulla crescita.

Per questa ragione, il regime non ha mai superato alcuna linea rossa, cosa che gli ha permesso di mantenersi al potere per decenni, e di crescere un esercito e un’industria militare sempre più potenti. Al contrario, la nuova generazione al potere – il cui gradimento all’interno del Paese peraltro è ai minimi storici – potrebbe ritenere al contrario che sia ormai tempo di reagire in maniera più muscolare. Anche se questo dovesse provocare una reazione del «grande Satana del mondo» ovvero gli Stati Uniti.

E il fatto che intanto le piazze del Medio Oriente s’infiammano, che la guerra a Gaza prosegue a ritmi serrati, e che Russia, Stati Uniti ed Europa vivono un crescendo di inquietudine (dal momento che il pessimo esempio iraniano non può che galvanizzare un fronte ampio di terroristi internazionali) sono segnali che Washington non può ignorare. Oltretutto, l’Iran è il primo alleato di Mosca e quegli stessi droni che hanno sorvolato Israele vengono impiegati quotidianamente in Ucraina così dagli Houthi nello Yemen. Dunque, si può ritenere senza tema di smentite che vi sia un filo comune che lega i destini di questi conflitti e dei Paesi che ne sono coinvolti.

Proprio per questo, Netanyahu non cede: è convinto che trascinare Washington in uno scontro aperto sia legittimo, perché quelli che sta confrontando sono nemici comuni. Tutto sta adesso a capire come l’America di Biden, nel momento più delicato per la presidenza, perché a pochi mesi dalle elezioni, potrà o vorrà reagire alla risposta/vendetta che Gerusalemme promette.

«Israele ha dimostrato una straordinaria capacità di difendersi e sconfiggere attacchi senza precedenti», ha detto il presidente blandendo l’alleato. «Abbiamo aiutato Israele ad abbattere quasi tutti i droni e i missili in arrivo» ha poi sottolineato. Come a dire che per la Casa Bianca la questione è archiviata. Che gli americani hanno la coscienza a posto.

Ma questo potrebbe non bastare. Se Israele attaccherà l’Iran reagendo in maniera emotiva e angosciato dal senso d’insicurezza (peraltro reale), potrebbe innescare una spirale che metterà Biden spalle al muro, e a quel punto il presidente americano si troverà nella stessa situazione di Carter, con la differenza che adesso Biden è consapevole che la moderazione non paga in termini elettorali: agendo con eccessiva prudenza, potrebbe perdere la Casa Bianca.

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