Bianca Berlinguer
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Bianca Berlinguer, "l'onda lunga da Almirante a mio padre"

La carriera giornalistica «intrapresa dopo aver scartato quella da psichiatra». La certezza di una famiglia «sempre e per sempre unita». Il memoir sulla trans Marcella Di Folco, «l’amica con il più alto tasso di passione per la vita». Le parole di Bianca Berlinguer cadono lievi su discorsi importanti.Investono temi universali poiché declinano il passato, analizzano il presente e decifrano il futuro personale e collettivo. Questa intervista davvero rara - sia per i suoi contenuti sia per la famosa riservatezza della conduttrice di Cartabianca - parte per forza dalla sua vita professionale, la più attuale.

Quando le è scattato il sacro fuoco per il giornalismo?

La verità? Ho scoperto che mi piace fare la giornalista dopo esserlo diventata. Finito il liceo avevo molti dubbi sulla facoltà da scegliere. Ne ho scartate alcune e mi sono rimaste medicina, per poter poi diventare psichiatra, o lettere, per tentare la strada del giornalismo.

E ha scelto lettere.

Sì, ma sempre pensando alla carta stampata. Infatti ho cominciato al Messaggero di Roma fino a quando Giovanni Minoli mi chiese di lavorare a Mixer. Ci sono rimasta quattro anni da precaria fino al momento in cui Sandro Curzi, colui che considero il mio maestro, mi ha chiamato al Tg3. Con me c’erano, tra gli altri, Federica Sciarelli e Maurizio Mannoni. Ci ha fatto capire come fare un telegiornale e la televisione in generale.

Nel 2009 diventa direttrice del Tg3, sulle orme di Curzi immagino.

Ho ripristinato una sua regola: cercavo di non affidare alcun servizio casualmente a chi capitava, ma di chiedere a ciascuno di fare solo quello che sapeva fare meglio. Il risultato premiava il giornale.

Lei sa meglio di me che spesso le redazioni si reggono su fragili equilibri di posizione.

A me interessa il prodotto e cerco di dimenticare raccomandazioni, anzianità, ruoli formali.

Ma questo ha alimentato la fama di cattiva che la circonda. Lei pensa di avere un buon carattere?

Intanto la vita privata è una cosa, quella professionale un’altra. Di sicuro sono molto esigente sul lavoro, anche con me stessa. E se lo sono con me, è inevitabile che lo pretenda dagli altri. Considero fare il giornalista un privilegio da onorare.

A Cartabianca ha meno problemi diplomatici?

Nessun problema, la nostra redazione è molto capace e vive in un ottimo clima. Ho potuto scegliere la squadra e loro hanno potuto scegliere me. Nei tg è molto più difficile.

Il programma va molto bene, le è riuscito anche il colpo del duello Bonaccini-Borgonzoni. Siete diversi dai competitori, Floris e Giordano. A proposito: con chi andrebbe a cena tra i due?

Ma con entrambi, per carità.

Lei fin da bambina ha frequentato Stintino.

Alloggiavamo dai pescatori del posto, in affitto. D’altronde i miei genitori non hanno mai avuto una casa di proprietà neppure a Roma. Mio padre, come tutti i dirigenti comunisti, versava al partito la quota di stipendio parlamentare eccedente il salario di un metalmeccanico. Questa era la regola.

E l’Isola Piana, l’isola dei Berlinguer a poche miglia da Stintino?

Un’eredità della madre di papà e di zio Giovanni. All’epoca alle figlie femmine venivano date le terre infruttuose, ai maschi quelle utili da coltivare.

Anche la vostra isola lo è.

Per anni l’abbiamo affittata ai pastori che la usavano per il pascolo. Caricavano le pecore sulle barche e le portavano lì. L’affitto, 180 mila lire all’anno, serviva per coprire il pagamento delle tasse.

Mai pensato di venderla?

Mai, nemmeno quando sono arrivate offerte ricchissime. Papà e zio Giovanni volevano che l’isola fosse sottratta a costruzioni e speculazioni di ogni tipo. Per fortuna da tempo è vincolata.

C’è anche il vincolo sentimentale.

Stintino era il posto della libertà: estate, mare e gioia. A differenza di Roma e di ogni grande città, bastava il controllo sociale della comunità. Le famiglie si conoscevano tutte da sempre e a noi quattro figli era consentito fin da piccoli di uscire da soli, persino di sera. Io, Maria, Marco e Laura lo abbiamo fatto per anni, ovviamente dividendo per classe d’età le nostre frequentazioni. Ma sempre con l’occhio rivolto l’uno all’altro.

Siete ancora così uniti?

Come sempre e, spero, per sempre. Abbiamo un forte senso di appartenenza, anche i nostri figli sono unitissimi tra loro. Penso sia legato al fatto che siamo una famiglia a prevalenza femminile e al ruolo fondamentale giocato da nostra madre Letizia, prima e dopo la morte di papà.

Torna spesso a Stintino?

No, di rado. E al massimo per un giorno.

Perché?

Anche papà e mamma erano davvero spensierati soltanto in quel posto. Ora che entrambi non ci sono più, i ricordi, seppur felici, rappresentano un carico emotivo troppo grande.

È comprensibile. Il ricordo dei funerali di suo padre commuove ancora milioni di italiani. Figurarsi voi, il sangue del suo sangue.

Su di noi hanno pesato non solo la sofferenza personale ma anche altri aspetti. Mentre seguivamo la bara, non potevamo comprendere appieno il senso di quella folla sterminata accorsa a piazza San Giovanni e le sue conseguenze. Inoltre il Pci, inteso come casa comune, si occupò di tutto, dal momento del malore di papà fino ai funerali. Tutto questo ci ha impedito di vivere il lutto come esperienza familiare, motivo per il quale la sua elaborazione è stata segnata per sempre.

Anche per lei?

Sì, anche per me. Ho capito soltanto in seguito perché mio padre è stato così amato, dalla sinistra, ma anche rispettato dalla destra. Ogni epoca ha le sue difficoltà ma se pensiamo a quelle di allora, erano forsemaggiori di quelle attuali. C’era la crisi economica, ma c’era anche il terrorismo, che condizionava la nostra vita e quella di tutti gli italiani. Il Pci si proponeva come una comunità, unita da un progetto politico collettivo e da valori condivisi, per i quali impegnare la propria vita e le proprie risorse non era sentito come un sacrificio ma come una libera scelta.

Anche a destra c’era questa idea?

Credo di sì, per una parte almeno. Ed è proprio quello che sembra mancare oggi: il rispetto di chi la pensa diversamente da te. In politica si è avversari, non nemici, perché quando il linguaggio pubblico diventa brutale e bellico, si minano le istituzioni e restano soltanto macerie. Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante sono stati capaci di rispettarsi reciprocamente, al punto che non sembra impensabile, che possano essersi incontrati riservatamente per fronteggiare l’emergenza terrorismo e contrastare gli estremismi di sinistra e di destra.

Almirante venne anche a omaggiare il feretro di suo padre alla camera ardente di Botteghe Oscure.

Ho compreso la forza di quel gesto, anche per la destra, anni dopo.

Ricorda quando?

Le dico la data precisa, il 27 gennaio 1995.

Il giorno della «svolta di Fiuggi» decisa da Gianfranco Fini.

La direttrice del Tg3 dell’epoca, Daniela Brancati, decide di mandare proprio me a seguire la fine del Movimento sociale italiano e l’inizio di Alleanza Nazionale. Ritiene che io sia la persona giusta perché, mi dice, «appartieni a una storia opposta ma non hai pregiudizi». Vado lì con l’idea di poter ricevere anche qualche manifestazione ostile e invece tutti  si alzavano, mi salutavano, mi incoraggiavano. Il cameraman che era con me a un certo punto mi fa: «Siamo il Tg3, tu sei Berlinguer, in cosa stiamo sbagliando?». Non stavamo sbagliando, ad accoglierci era semplicemente l’onda lunga della visita di Almirante al feretro di papà.

Però ho anche il vago ricordo di un’aggressione a lei.

Sì, ma un cretino c’è sempre e dovunque.

Veniamo a Marcella Di Folco, una figura prorompente. Lei è invece molto discreta. Personalità diverse che si sono incontrate e diventate amiche.

Ci siamo conosciute al Gay pride di Venezia del 1993. Lei mi ha offerto uno dei suoi ombrellini che le piacevano tanto. Non ci siamo più lasciate.

Ispirata dalla sua vita straordinaria, lei ha scritto su Di Folco un libro considerato bellissimo. A mio parere perfetto per un film.

Lo dice anche il mio editore, Elisabetta Sgarbi. Però intanto leggete il libro. Non per me, per Marcella e la sua voglia di vita.

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