Tra inflazione record, spinte indipendentiste di Scozia e Irlanda, scioperi a singhiozzo in quasi ogni settore e una buona parte degli inglesi «pentiti» della Brexit, per il neopremier britannico si prospetta un 2023 in cui dovrà dimostrare tutto il suo valore. Intanto, nel suo stesso partito, cominciano a emergere i primi dissensi.
L’ultima speranza per un Natale migliore era riposta in una vittoria ai Mondiali di Calcio in Qatar. Non c’è nulla di meglio per risollevare il morale di una Nazione impantanata nella crisi. Invece, dopo l’eliminazione, il premier britannico Sunak si trova a governare un’imbarcazione in piena tempesta e senza alcuna gloria, seppur effimera, ad addolcire l’impresa. Con l’inflazione più alta degli ultimi 40 anni (a ottobre, il record dell’11 per cento) e l’economia in ginocchio, the Prime minister più abbiente che la storia britannica abbia mai conosciuto deve occuparsi di una lunghissima lista di emergenze.
Ma la più importante di tutte, forse, non è (solo) economica: nel 2023 deve riuscire a tenere unito un Regno minacciato da spinte indipendentiste sempre più forti, rafforzate da una Brexit incompleta e insoddisfacente. In Scozia, la premier nazionalista Nicola Sturgeon non si dà vinta di fronte alla decisione della Corte suprema che due settimane fa ha rigettato la richiesta scozzese di indire un secondo referendum senza il consenso di Westminster. Il primo, del 2014, si era concluso con una sconfitta degli indipendentisti: il 55 per cento si era dichiarato favorevole a rimanere nel Regno Unito. Ma, dopo la Brexit, la situazione è molto cambiata visto che la maggioranza degli scozzesi aveva votato per rimanere in Europa. E benché la Ue non abbia mai dato per scontato un rientro immediato e automatico nella comunità una volta completato il distacco da Londra, Sturgeon persiste nel volere il divorzio da un governo centrale di cui non condivide le politiche.
Il fermento è poi forse maggiore in Ulster, dove lo stallo del nodo irlandese ha paralizzato l’assemblea di Stormont e rischia di mandare il Paese verso nuove elezioni. Il partito unionista infatti, in seguito alla vittoria elettorale del Sinn Feinn, si rifiuta di formare un governo di coalizione fino a quando non sarà risolta la questione irlandese che finora costringe Belfast a rimanere nel mercato unico pur facendo parte del Regno Unito. Una situazione che penalizza fortemente gli scambi commerciali e sulla quale il neopremier aveva promesso d’intervenire al più presto, approvando quella legislazione voluta da Boris Johnson che consentirebbe al governo inglese di sospendere unilateralmente alcune parti del protocollo, come i troppi controlli ai confini.
Le ultime indiscrezioni raccontano però che il primo ministro avrebbe congelato l’approvazione della norma, nella speranza di ottenere un accordo migliore con Bruxelles nei primi mesi del prossimo anno. Una mossa del cavallo che ha indotto molti a pensare che il governo londinese stia pensando di ammorbidire la propria posizione, anche per far fronte alla crisi finanziaria e di forza lavoro indotte dall’uscita dall’Europa. E sebbene Downing Street abbia sempre escluso di poter tornare a una libertà di movimento delle persone, è innegabile che in certi settori alcune deroghe siano già state fatte. Sicuramente Sunak è stato poi informato dei recenti sondaggi sulla materia, che rivelano un’inversione di tendenza nell’opinione pubblica. Secondo un sondaggio di YouGov, il 56 per cento di chi sei anni fa votò per andarsene, ora pensa di aver fatto una scelta sbagliata, contro il 32 per cento che ancora voterebbe per il «leave».
Non solo, l’ottimismo nei confronti degli accordi commerciali con i Paesi extraeuropei non è stato ben riposto. Qualche settimana fa l’ex ministro per l’Ambiente George Eustice ha ammesso che l’accordo post-Brexit con l’Australia «non si è rivelato un buon affare». «Questa non è la Brexit che volevo» ha commentato il direttore esecutivo del gigante commerciale Next, Simon Wolfson, invitando il governo a far entrare nel Paese un maggior numero di lavoratori stranieri. E Swati Dhingra, della Bank of England, ha addossato all’uscita dall’Europa la responsabilità dell’aumento del 6 per cento nei prezzi dei prodotti alimentari e dell’inflazione ancora in ascesa.
Se finora la City si era salvata, anche quel primato è andato perduto. La Borsa della capitale è stata infatti superata da quella di Parigi, dopo che più di 500 imprese hanno deciso di trasferire parte delle attività all’estero. Movimenti che hanno avuto come conseguenza la perdita di circa 10 mila posti di lavoro e una riduzione del 10 per cento delle attività bancarie, pari a mille miliardi di euro. Il governo inglese ha promesso di risollevare le sorti finanziarie approvando un pacchetto di misure «per liberare la finanza dai suoi vincoli», ma la verità è che la City è uscita perdente dalla competizione con Euronext, mercato integrato di sette piazze, tra cui Milano, Amsterdam, Dublino e Parigi, che è l’alternativa continentale alla capitale inglese. «Dopo la Brexit» spiega Stéphane Boujnah, a capo di Euronext, «Londra non è più il luogo naturale per le aziende in crescita».
Sul fronte interno il governo è chiamato ad affrontare gli scioperi a singhiozzo di molti servizi pubblici e privati fondamentali per la popolazione, sul cui malcontento fanno leva le più importanti organizzazioni sindacali. Infermieri e paramedici provati dall’emergenza Covid, come i dipendenti dei trasporti pubblici e il personale delle poste, ma anche insegnanti e persino avvocati sono scesi in piazza negli ultimi mesi, per protestare contro le condizioni di lavoro, la sicurezza e il livello delle retribuzioni. A farne le spese soprattutto la gente comune, costretta a barcamenarsi tra uno sciopero e l’altro, tra un treno soppresso e un’operazione cancellata. Proprio a cavallo tra Natale e Capodanno anche il personale di controllo negli aeroporti ha deciso di incrociare le braccia, costringendo il governo a utilizzare l’esercito per garantire il funzionamento delle strutture. E Sunak ha minacciato di ricorrere a nuove leggi per proteggere le persone dai disagi «se le unioni sindacali continueranno a dimostrarsi irragionevoli».
Allo stesso tempo dovrà anche rinsaldare l’unità del partito dove si fanno sentire le prime voci dissenzienti. Un gruppo di 40 deputati gli ha scritto una lettera in cui denunciano le tasse troppo alte di una manovra «poco» conservatrice. Tim Bale, docente di Politica alla Queen Mary University di Londra, appare ottimista sulle capacità di Sunak di risolvere le tante emergenze. «Ne deve affrontare molte, è vero» dice «ma nella maggior parte non sono state provocate da lui. Istintivamente è allineato con la maggioranza del suo partito ed è intellettualmente, caratterialmente e dal punto di vista della comunicazione, in grado di fare il premier». Vista la situazione, forse dovrà avere dalla sua parte anche parecchia fortuna. Tanti auguri allora mister Sunak e non solo per Natale.