schiavitù gas
Manifestazione contro il rigassificatore di Trieste-Muggia il 3 maggio 2013 (Ansa).
Politica

Chi ha voluto questa schiavitù del gas

L'editoriale del direttore

Nel corso degli anni, la sinistra ha patrocinato due referendum che hanno abrogato qualsiasi possibilità di costruire centrali nucleari in Italia, ma anche di trivellare l’Adriatico in cerca di gas.


Milena Gabanelli è pentita. Lo ha confessato sere fa in tv, nel telegiornale condotto da Enrico Mentana. A proposito dell’aumento delle bollette di metano e luce e della dipendenza dal gas russo, l’ex conduttrice di Report ha ammesso le sue colpe: aver osteggiato la costruzione in Italia di rigassificatori, ossia di serbatoi che consentissero lo stoccaggio del gnl, il metano liquido, è stata una cappellata.

«Nei vent’anni di politica energetica ci sono responsabilità anche di noi giornalisti» ha spiegato su La 7. «Io personalmente so di aver combattuto quando stavano costruendo il rigassificatore di Brindisi e su questo faccio mea culpa». Onore al merito per chi riconosce di aver sbagliato. Tuttavia, riconoscere l’errore non attenua il danno, né contribuisce ad alleviare il peso di una scelta scellerata sui bilanci delle famiglie.

La storia del rigassificatore di Brindisi la conosco bene. Più di vent’anni fa una consociata della British Gas, in collaborazione con Snam, chiese di costruire un serbatoio per lo stoccaggio di gas liquido. Il progetto prevedeva uno stanziamento di 500 milioni di euro ed erano previsti 5.000 posti di lavoro. Inizialmente l’investimento fu approvato, ma in seguito fu fermato dalla burocrazia e, soprattutto, dalle proteste delle associazioni ambientaliste, le quali vedevano in quell’impianto non so quale scempio.

Risultato, dal 2002, anno del via libera alla realizzazione del rigassificatore, fino al 2012, British Gas fu impegnata in una battaglia giudiziaria, a base di ricorsi e contestazioni. Alla fine, l’azienda inglese si risolse a levar le tende, preferendo un ritorno a casa. Infatti, il rigassificatore fu fatto nel Galles, in pochi anni e senza proteste di alcun tipo. Non andò meglio con un altro progetto, quello del «bombolone» di Zaule, una frazione di Muggia, in provincia di Trieste. Il terminale era un’idea del gruppo spagnolo Gas Natural Fenosa e l’investimento previsto superava anche in questo caso i 500 milioni di euro.

L’iter per la costruzione del serbatoio iniziò nel 2004, con la benedizione del ministero delle Attività produttive, ma tra valutazioni di impatto ambientale, procedimenti autorizzativi, decisioni dell’autorità portuale, ricorsi e controricorsi che portarono alla sospensione del via libera dell’ente cui competeva certificare che non ci sarebbero stati danni all’ecosistema, si arrivò al 2016, quando l’opera fu tolta dall’elenco di quelle strategiche a livello nazionale.

Risultato, anche in questo caso il progetto è sfumato e la conferenza dei servizi del Friuli-Venezia Giulia con il definitivo «no» all’impianto del 2017 ha messo la pietra tombale sul rigassificatore. Stessa fine per il serbatoio che l’Enel avrebbe voluto realizzare a Porto Empedocle, in Sicilia. Nonostante le autorizzazioni, a mettersi di traverso furono le associazioni ambientaliste, che impedirono la concretizzazione di un progetto che prevedeva un investimento da 800 milioni di euro, occupazione per un migliaio di persone e una capacità di stoccaggio di 8 miliardi di metri cubi l’anno.

Chiunque può fare i conti, non solo dei soldi e dei posti di lavoro persi, ma del gas di cui disporremmo se oggi avessimo i tre rigassificatori che ho elencato. Anche se non tutti avevano la stessa capacità, probabilmente i tre impianti da soli avrebbero consentito di ridurre di due terzi la dipendenza dal metano di Mosca.

I russi, infatti, ci vendono ogni anno 33 miliardi di metri cubi di gas e noi, puntando su quello liquido, che si può immagazzinare, con tre impianti come quelli che nei primi anni Duemila erano previsti avremmo potuto stoccarne almeno 20 miliardi e forse anche di più. In pratica, ci saremmo resi indipendenti e oggi, nonostante la guerra in Ucraina, non vedremmo le bollette schizzare alle stelle.

Vi dirò di più. Anni fa, quando ancora era amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni mi parlò di un progetto che prevedeva di trasformare l’Italia in una specie di hub energetico per l’intera Europa. «Siamo in una posizione strategica» mi confidò, «perché siamo una specie di pontile che si affaccia sul Mediterraneo». Facendo confluire il gas dalla Libia, dall’Algeria e dall’Azerbaigian, mettendo insieme una rete di rigassificatori, noi possiamo diventare il serbatoio dell’intero continente, perché il gas può arrivare da noi e poi essere esportato in Francia, Germania o altrove, grazie a una rete interconnessa.

Il progetto mi parve geniale, perché trasformava un Paese povero di idrocarburi in un Paese che, sfruttando la propria posizione geografica, ne diventava un grande esportatore. Inutile dire che non se ne fece niente. La Snam, che doveva essere il braccio operativo dell’operazione, fu tolta all’Eni e ceduta a Cassa depositi e prestiti per non so quale ragione.

Quanto al resto, per essere sicuri che nessun governo provasse a cercare altre fonti energetiche che non fossero il solare e l’eolico, la sinistra, spalleggiata da giornalisti tipo Gabanelli, nel corso degli anni ha patrocinato due referendum che hanno abrogato qualsiasi possibilità di costruire centrali nucleari in Italia, ma anche di trivellare l’Adriatico in cerca di gas.

Certo, ora qualcuno piange sul latte versato, ma per riscaldarlo, quel latte, siamo costretti a pagare una bolletta che è doppia o tripla rispetto a quella che sarebbe potuta essere. Perché tutto ha un prezzo, anche l’ideologia verde. E soprattutto hanno un prezzo gli errori di chi, inseguendo un sogno di emissioni zero, è costretto a bruciare il carbone anche se inquina di più.

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Maurizio Belpietro