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Berlinguer e l’oro di Mosca

Berlinguer e l’oro di Mosca

In occasione del centenario del Pci, un libro fa emergere nuovi particolari sul fiume di denaro che l’Unione sovietica non fece mai mancare ai compagni italiani.


«Rubli! Rubli!», rinfacciavano polemicamente i socialisti ai loro compagni comunisti durante il congresso di Livorno, cent’anni fa. E avevano ragione, dal momento che la scissione che avrebbe portato alla nascita del Partito comunista d’Italia rispondeva agli ordini del Comintern, di obbedienza sovietica. Non soltanto in nome dell’ideale rivoluzionario, ma anche in virtù dei finanziamenti incassati sottobanco.

Rubli? Non soltanto, ma anche e soprattutto lingotti d’oro, gioielli, pietre preziose, diverse valute straniere, spille, braccialetti, collane, anelli, persino fiale di morfina. Frutto di requisizioni più o meno legali, accumulate nel caveau del Cremlino dopo la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre. Senza guardare troppo per il sottile, giacché la filosofia di Lenin prevedeva che qualsiasi fine potesse giustificare qualsiasi mezzo. Foraggiare i compagni comunisti italiani, dunque, si poteva considerare un investimento lungimirante. Ma neppure il più arrabbiato dei riformisti, in quel fatale inverno del 1921, avrebbe potuto immaginare la portata – e la durata futura – del fiume di denaro in movimento. Che si sarebbe ingrossato con gli anni, dapprima sotto la copertura internazionalista del «Soccorso rosso» e poi articolandosi nella sua branca italiana.

E dando vita, quasi sotto gli occhi di Benito Mussolini, a un imponente apparato comunista, formato in Italia da 77 comitati provinciali, centinaia di sottocomitati, più di mille gruppi, per un totale di 135.000 aderenti. Una simile rete organizzativa non sarebbe mai stata raggiunta da nessun altro partito italiano – eccetto ovviamente quello fascista del Ventennio – né prima né durante e neppure dopo la Seconda guerra mondiale. Talmente perfetta, quella armata segreta, da tramandarsi di generazione in generazione, fino all’ultima eredità toccata al Pd.

Cent’anni di comunismo italiano richiedevano un bilancio adeguato. Quando Francesco Bigazzi, storico corrispondente dalla Russia, ha riordinato l’imponente materiale in suo possesso in occasione del centenario del Pci, ha potuto finalmente mettere nero su bianco la storia dei finanziamenti da Mosca a Botteghe Oscure. Che sono continuati fino all’ultimo, nel 1991, e si possono oggi calcolare in circa mezzo miliardo di dollari.

Mai come oggi, insomma, è importante rileggere e analizzare la storia quel fenomeno politico che tanta parte avrà nel Novecento; in particolar modo dal dopoguerra in avanti, sia dal punto di vista di Mosca che alla luce della interminabile, estenuante e alla fine mortale partita a scacchi giocata da Enrico Berlinguer con l’alleato-avversario (troppo più forte di lui) incarnato da Leonid Brežnev.
Un fiume di denaro è stato segretamente convogliato nelle casse delle Botteghe Oscure fin dalla nascita del Pci, e poi istituzionalizzato, a partire dal 1950, con un Fondo di assistenza internazionale amministrato dal grande elemosiniere Boris Ponomarëv.

Il libro contabile, spalancato oggi, può dare le vertigini: tutto era registrato minuziosamente, donazione per donazione (per esempio, il primo anno si era trattato di 400.000 dollari dell’epoca, saliti a mezzo milione l’anno seguente). Cifre che equivalevano a un’imponente iniezione di denaro destinata alla macchina organizzativa e di propaganda. Da inquadrare a sua volta in un piano generale in cui contavano ancora di più regali, provvigioni, tangenti, fondi neri accumulati dalle centinaia di società miste create dal Pci con partner collocati oltre la Cortina di ferro. Senza trascurare i proventi delle intermediazioni operate dalle cooperative rosse nei loro traffici col resto del mondo comunista, e le interessenze percepite sottobanco sui grossi affari conclusi dalle industrie pubbliche e private con l’Urss e la Germania dell’Est, o sulle forniture di petrolio e gas naturale concluse con i Paesi a regime comunista.

Quanto a Enrico Berlinguer, sarà al corrente di tutto fin da quando, ancora giovanissimo capo della Fgci, la Federazione giovanile comunista italiana, potrà usufruirne nella campagna elettorale del 1953: quella che porterà alla bocciatura della cosiddetta «legge truffa» voluta dalla Dc. La sua ascesa, culminata nell’elezione a segretario del 1972, sarà parallela a quella dei finanziamenti segreti sovietici, in qualche caso – come risulta dai documenti – sollecitati da lui stesso. E accompagnata dallo scavo sotterraneo di un labirinto spionistico russo, oltre che dall’invio di militanti italiani nell’Est Europa per l’addestramento militare e di sabotaggio.

Solo dopo il 1975, mentre in Italia prenderà corpo la strategia del compromesso storico e andrà materializzandosi il progetto dell’eurocomunismo, Berlinguer si renderà conto della pericolosità di quella compromettente rete clandestina fatta di soldi, armi, camuffamenti e radiotrasmittenti, e provvederà a togliere il comando delle operazioni al troppo scopertamente filosovietico Armando Cossutta. Sarà allora che il suo disegno ardito, emanciparsi progressivamente da Mosca, concepirà una riforma radicale del sistema. Non più – o molto meno – «verdoni» russi, e al loro posto una fitta rete di società di comodo, in grado di garantire il flusso dei finanziamenti senza compromettere irreparabilmente il partito.

E qui si annida il mistero del rapporto fra Berlinguer e il «Belzebù» sovietico: fatto di strappi e riavvicinamenti, doppiezze e salti nel buio. Un interminabile braccio di ferro, fra un viaggio a Mosca di Berlinguer e l’altro, un colloquio amichevole con Brežnev e un improvviso irrigidimento. Il destino delle due invenzioni strategiche di Berlinguer, il compromesso storico e l’eurocomunismo, costituiranno infatti la posta in gioco nella partita. Il segretario del Pci tenterà di assicurarsele entrambe, muovendosi sul filo del rasoio.

Ma l’eurocomunismo, accompagnato dal famoso «strappo» da Mosca – concordato con il Cremlino – fallirà miseramente. Perché, allestendo una trappola, Brežnev provvederà a liquidarlo. E lo farà servendosi, nientemeno, che del Maresciallo Tito.
Durante un incontro in Unione Sovietica, infatti, registrerà una frase incauta del presidente jugoslavo – «l’eurocomunismo è un’eurocretinata» – riportandola per vie traverse sia a Berlinguer che al suo alleato francese François Marchais. E facendo naufragare il tutto nel ridicolo, disgustando il leader francese e minando l’autorevolezza del segretario italiano.

Quanto al compromesso storico, il Belzebù sovietico attenderà sornione lungo il corso del fiume, aspettando il passaggio del cadavere. Che infatti sarà trascinato dalla corrente della politica italiana, dopo la scomparsa di Aldo Moro. È qui che il destino di Berlinguer si compie: fallisce il suo progetto di conquista indolore del potere in Italia, e anche il sogno di rifondare il comunismo riportandolo alla purezza iniziale di Lenin, con la correzione di Gramsci. Gli resteranno soltanto i famosi «pensieri lunghi», cioè quei temi che oggi – dall’ecologismo al femminismo, dal movimentismo giovanile alla moltiplicazione dei diritti – costituiscono la base del mass-radicalismo, unica ideologia possibile per il Pd.

Il cerchio si chiude con la morte del protagonista nel 1984, durante un comizio a Padova, seguita dagli imponenti funerali. Ma la sua ombra rossa, cent’anni dopo, non smette di stagliarsi sulla democrazia liberale italiana.

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