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Tra pallone e Ghisa assenti, Milano è all’ultimo stadio

Tra pallone e Ghisa assenti, Milano è all’ultimo stadio

Il progetto per il nuovo San Siro si sta trasformando in una soap opera. E poi il problema vigili: organico insufficiente, troppi agenti impegnati in lavori d’ufficio, reati che si moltiplicano per lo scarso presidio del territorio.Non bastano a garantire servizi e controlli nel capoluogo lombardo. E la città è lasciata a sé stessa.

È l’altra fabbrica del Duomo, non ancora veneranda, ma destinata a diventarlo in quanto «impresa che per le immani dimensioni o per l’inefficienza o pigrizia di chi vi pone mano, non è mai finita». È il nuovo stadio di San Siro, cattedrale laica di Inter e Milan che ancora non esiste e già è avvolta da un polverone di polemiche, ricorsi al Tar (due), un referendum che incombe, raccolte di firme, faide fra vip. E sgambetti come se si trattasse del più velenoso dei derby.

A sibilare a fil di caviglia sono in tanti: i tifosi del nuovo contro quelli del vintage, i comitati Paradiso terrestre contro i club «cementificatori», i professionisti del «basta un ritocco» contro quelli del «radere al suolo». Per una volta Sandro Mazzola e Gianni Rivera vestono la stessa maglia: «Salviamo il Meazza». Ma le loro vecchie squadre lo vogliono abbattere. E la scala (del calcio) rimane appoggiata a un muro scrostato.

Siamo all’ultimo stadio. Su questo tema un solo dettaglio è chiaro: Milano non sta in Europa ma nel litigioso Sud del mondo. E la narrazione calvinista buona per il marketing istituzionale crolla alla terza riga per lasciare il posto a sterili ammuine.

La guerra del pallone è riassunta da un velenoso scambio di battute fra due interistissimi, Giuseppe Sala e Massimo Moratti. Il sindaco: «Faccio un appello a chi vuol salvare lo stadio. Il modo migliore è trovarne una formula; siamo disponibili a cederlo. Mi rivolgo per esempio a Moratti, visto che ho sentito la sua disponibilità a far parte di questa iniziativa sul referendum». Il petroliere: «Cosa lo compro a fare, per giocarci con i bambini? San Siro deve restare come unico stadio di Milano. Il Comitato Sì Meazza non vorrebbe tenere lo stadio come monumento, bensì per continuare ad avere Inter e Milan. Mi dispiace che il sindaco abbia avuto questa caduta di stile».

Tre anni fa i proprietari dei club (i cinesi nerazzurri di Suning e gli americani rossoneri del fondo Elliott) hanno deciso che ristrutturare l’astronave di San Siro sarebbe stato un bagno di sangue e hanno avanzato proposte per un nuovo stadio, asset imprescindibile per aumentare il valore dei brand, con abbattimento del vecchio. Il motivo è sintetizzato dal presidente del Milan, Paolo Scaroni: «Questa è l’unica strada per far crescere i ricavi dei club e tornare a essere competivi in Europa come negli anni d’oro. A Milano serve un’altra attrazione, la gente verrà a vedere anche questo nuovo stadio che sarà emblematico di come la città può essere moderna e al top». Costo dell’operazione: 700 milioni per l’impianto avveniristico più altri 400 di opere per il quartiere per ottenere un centro polifunzionale sempre aperto. Al Madison Square Garden ci sono anche tre eventi al giorno e nessun problema di budget.

Dopo un anno di immobilismo per evitare grane in campagna elettorale, il sindaco Sala ha messo sull’operazione il bollino del «pubblico interesse» e nel dicembre scorso le società hanno presentato il progetto umilmente denominato «La cattedrale delle leggende», firmata dal gigante mondiale dell’impiantistica sportiva Populous, che ha ideato gli stadi olimpici di Sydney e Londra, ha realizzato il nuovo Wembley e la casa del Tottenham. Il filmato di presentazione dice già molto del nuovo San Siro, definito «il più bello ed ecosostenibile del mondo». Con un errore: nella foga di evidenziare un impatto ambientale zero, il rendering mostra lo stadio incastonato nella foresta amazzonica.

La terminologia green non ha scalfito lo scetticismo della Milano nostalgica delle Luci a San Siro di Roberto Vecchioni. Saldandosi con i fremiti nimby da Municipio 1, la negatività verso il nuovo sta producendo la tempesta perfetta. Frustrati da anni di ruolo ancillare nelle amministrazioni di sinistra di Pisapia e Sala, gli ecologisti vedono nel Meazza la loro Stalingrado e si buttano in area come il mitico Lucianone Chiarugi per lucrare il rigore. I loro obiettivi sono due: far ritirare la delibera sul pubblico interesse dell’opera (difficile, visto che ci vanno 70 mila milanesi ogni domenica) e impedire di conseguenza l’abbattimento del vecchio impianto. Il decano dei Verdi, Carlo Monguzzi, ha acceso la schermaglia politica: «L’operazione immaginata dalle società non pare un sogno green ma un incubo. Il moncherino del vecchio Meazza, un nuovo impianto, un centro commerciale e un paio di grattacieli. Bene avere soldi da investire nelle case popolari di San Siro ma la contropartita non può essere la cementificazione».

Si dimentica un dettaglio: nel quartiere c’è anche la Molenbeek islamica dove la polizia non entra, luogo che i milanesi meno politicizzati vedrebbero con piacere recuperato alla città. A inizio anno sono partiti due ricorsi al Tar: il primo del Comitato Sì Meazza e del Coordinamento San Siro, il secondo del Gruppo Verde San Siro guidato dallo storico esponente di estrema sinistra Basilio Rizzo, che definisce Sala «il sindaco del cemento».

Accanto alle carte bollate arriva una raccolta di firme (ne servono mille entro il 5 marzo) per quello che Inter e Milan temono di più: un referendum popolare destinato a radicalizzare lo scontro e a far prevalere il romanticismo sul pragmatismo. Testimonial dello status quo sono Rivera e Mazzola, ma anche quelle rockstar che ricordano concerti leggendari: Vasco Rossi, Laura Pausini, Jovanotti. Quando è arrivato dagli States il pianto greco di Little Steven, chitarrista di Bruce Springsteen («Abbiamo abbastanza grattacieli nel mondo ma c’è un solo San Siro»), i club hanno capito che la battaglia sarà epocale. E hanno deciso di nominare il manager Beppe Bonomi, gran negoziatore, per rappresentare i loro interessi.

Mentre le due squadre lottano per lo scudetto, di nuovo ai vertici dopo un lungo periodo di magre, Milano ribolle. E le società si mangiano le mani nell’assistere a ciò che avviene nei dintorni. La Juventus sfrutta al meglio l’Allianz Stadium, realizzato con la collaborazione del Comune (dieci anni fa il sindaco Piero Fassino chiese 20 milioni per 99 anni di gestione di 350 mila mq, vale a dire 58 centesimi per metro quadrato all’anno). Il Barcellona ha firmato un contratto di sponsorizzazione del Nou Camp con Spotify per 280 milioni. Il Real Madrid ha potuto ristrutturare il Santiago Bernabeu (in centro) senza vincoli. Londra ha rifatto Wembley da zero tenendo buone solo le due torri e il museo (veri depositari della storia). L’Arsenal ha abbattuto Highbury senza nostalgie realizzando sul vecchio sedime orti della stessa forma dello stadio.

La guerra dei mondi attorno a San Siro mette in grande imbarazzo il sindaco Sala, che vede vacillare l’immagine della «città del fare» ed è destinato a finire sulla graticola. Con un rischio ulteriore: se cinesi e americani dovessero costruire lo stadio a Sesto San Giovanni (hanno già ricevuto dolci proposte) lui passerebbe alla storia come l’uomo che ha cacciato Milan e Inter da Milano. Roba da pece e piume. Poi c’è la Soprintendenza. Finora non si è mossa, ma architetti, ingegneri e intellettuali spingono perché lo faccia. «San Siro fa parte della storia di Milano come il Duomo e la Scala», vagheggiano.

Non è esattamente così perché dell’impianto inaugurato nel 1926 non esiste praticamente nulla e le sette strutture successive non hanno particolari pregi. Lo spiega Emilio Faroldi, architetto e docente del Politecnico: «Le tracce di memoria non possono impedire la realizzazione del nuovo stadio e una città non può fermarsi davanti alla retorica. Nelle rampe possono esserci emozione e ricordo, ma nulla di storico e monumentale».

Siamo all’ultima parola sull’ultimo stadio. È quella di Adriano Galliani, che dentro l’astronave ha vinto proprio tutto. «Spiace ma va abbattuto. Ciascuno di noi è romanticamente affezionato alle case delle nonne per i ricordi che contengono. Ma poi si va a vivere altrove».

Ghisa dove sei?

Tra pallone e Ghisa assenti, Milano è all’ultimo stadio
Ansa

Un organico insufficiente, troppi agenti impegnati in lavori d’ufficio, i reati che si moltiplicano per lo scarso presidio del territorio. I vigili in servizio non bastano a garantire servizi e controlli nel capoluogo lombardo. E si diffonde la percezione di una città lasciata a sé stessa.

di Guido Fontanelli

Un fantasma si aggira per Milano. È il «ghisa», l’agente della polizia locale che nessuno vede più per strada. Desaparecido. Una percezione di assenza che preoccupa sempre più la cittadinanza. Parlare di emergenza forse è eccessivo, ma l’impressione di vivere in una metropoli meno presidiata è suffragata da una serie di gravi episodi: dalla violenza sessuale di gruppo subita da 11 ragazze in piazza Duomo alla movida che degenera in rissa con aggressione a un vigile in borghese, dalla sparatoria a San Siro fino all’arresto di quattro agenti della polizia locale perché si sarebbero appropriati di soldi nel corso di una perquisizione in una casa di presunti spacciatori.

A questi fatti si aggiunge una circolazione stradale caotica, almeno per gli standard milanesi, con auto lasciate in sosta vietata e sui marciapiedi anche nel pieno centro della città, senza che si palesi qualcuno a dare una multa. Del resto, il servizio è in parte appaltato all’Atm con i suoi ausiliari della sosta. Una situazione che fa a pugni con l’immagine di città «smart» proposta di continuo dal sindaco Giuseppe Sala.

Ora la sua amministrazione corre ai ripari annunciando l’assunzione di 500 nuovi agenti di polizia locale: 240 entro novembre 2022 e altri 260 entro novembre 2023. Oggi i vigili sono 2.812 e l’obiettivo del Comune è portarli a 3.350 entro aprile 2025. Ma sembra più una toppa al problema che la soluzione. «Sono pochi 500 nuovi agenti» commenta Gabriele Albertini, sindaco di Milano dal 1997 al 2006. «La nostra amministrazione era riuscita a portare l’organico da poco più di 2 mila agenti a 4 mila, ma era nostra intenzione salire fino a 5 mila: tanti ne servirebbero per una città come Milano».

Albertini fu il promotore di una rivoluzione che cambiò il volto dei vigili, cancellando privilegi, ampliandone il raggio di azione e trasformandoli, nonostante le feroci resistenze dei sindacati, in un corpo di polizia sul modello di New York, dove un sindaco può contare su 36 mila poliziotti. Quindi grandi investimenti (92 milioni di euro, di cui una trentina dall’Europa), nuove tecnologie, controlli elettronici agli accessi del centro, creazione del vigile di quartiere, perfino di un nucleo a cavallo.

Un’impostazione quasi militare. Che però aveva bisogno di essere sostenuta nel tempo. E ciò non è accaduto, con il risultato che la polizia locale si è numericamente ridotta ed è invecchiata. Anche se continua a costare ancora parecchio ai cittadini: Milano è infatti la città che spende di più per il corpo dei vigili, complessivamente quasi 200 milioni di euro all’anno, che corrispondono a 141,9 euro per abitante contro i 117 di Roma o i 77 di Napoli (dati di Openpolis relativi al 2019). «A me non interessa la gara a chi assume più vigili» commenta Marco Bestetti, consigliere di Forza Italia al Comune. «Occorre piuttosto intervenire sull’organizzazione della polizia locale. Intanto è troppo parcellizzata, sono stati creati tanti nuclei che distolgono gli agenti dal presidio del territorio».

Dal nucleo per il contrasto agli stupefacenti a quello della tutela del trasporto pubblico, da chi si occupa delle bici rubate a chi invece della indagini investigative, il corpo dei vigili è suddiviso in oltre 15 gruppi. «Poi una sessantina di agenti sono distaccati in Procura a cui se ne aggiungono altri che restano in capo al Comune ma svolgono attività di polizia giudiziaria». La polizia locale di Milano è organizzata sul territorio in nove comandi di zona, che dovrebbero essere il punto di contatto con i quartieri. Ma Bestetti sostiene che questi comandi sono di fatto eterodiretti dalla sede centrale, non hanno autonomia e svolgono un’attività insufficiente sul territorio.

«I vigili di quartiere sulla carta ci sarebbero» aggiunge l’esponente dell’opposizione «ma in realtà non ci sono, proprio perché i vari comandi non hanno abbastanza agenti a disposizione: nel Municipio 7, per esempio, il territorio è stato diviso in tre aree dove in ciascuna operano due agenti. Ma sono aree enormi, da 30 mila abitanti: chi li vede questi due vigili a piedi o in bicicletta?». Dal 2017 il comando della polizia locale è affidato a Marco Ciacci, proveniente dalla Polizia, uomo vicino alla magistrata Ilda Boccassini e accolto come un corpo estraneo dai vigili: il suo distacco presso il Comune scade il 31 marzo.

«La catena di comando è ancora debole, mancano dirigenti» lamenta Daniele Vincini, dirigente del sindacato della polizia locale Sulpl che ha organizzato uno sciopero dei vigili il 15 gennaio scorso. «Protestiamo perché abbiamo un contratto che non ci tutela, siamo degli agenti di polizia o degli amministrativi?». In attesa di una risposta, i «ghisa» continuano a fare i tappabuchi dove Polizia e carabinieri, anche loro a corto di personale, non arrivano più.

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