La nostra smania di aprire i confini, invadere habitat e illuderci di essere immortali con i progressi sfrenati della scienza, ha permesso al Covid-19 di stravolgere il Pianeta. Ma l’unico modo di evitare altre catastrofi, come sostiene l’autore di questo articolo e del nuovo saggio La malattia del mondo, è quello di riappropriarci del senso del limite.
Sul Wall Street Journal, di recente, il critico Adam Kirsch ha scritto un articolo gravido di preoccupazione sulle conseguenze della pandemia di coronavirus. A suo parere, quella del Covid-19 «potrebbe rivelarsi proprio il tipo di crisi necessaria a sovralimentare gli sforzi per creare quello che i suoi sostenitori chiamano un futuro “transumano”». Poiché la peste globale, priva di pietà, ci ha messi di fronte alla nostra «fragilità biologica» secondo Kirsch «molte persone saranno pronte ad abbracciare il messaggio della Dichiarazione transumanista del 1998». Il messaggio in questione è sostanzialmente il seguente: «Immaginiamo la possibilità di ampliare il potenziale umano superando l’invecchiamento, le carenze cognitive, la sofferenza volontaria e il nostro confinamento sul pianeta Terra».
Il transumanesimo è pensiero molto particolare, e decisamente estremo, il cui obiettivo è, in sostanza, l’ottenimento dell’immortalità tramite la tecnologia. «I transumanisti prevedono diverse possibili strade per l’immortalità» scrive Kirsch. «I nanorobot potrebbero vivere all’interno delle nostre cellule e riparare costantemente i danni, fermando l’invecchiamento. L’ingegneria genetica potrebbe eliminare i meccanismi che ci fanno invecchiare. Tali tecnologie sono ancora fuori portata, ma i transumanisti credono che saremo in grado di dominarle prima di quanto la maggior parte della gente pensi, con l’aiuto di una intelligenza artificiale superpotente».
A prima vista, queste idee potrebbero apparire folli (e in gran parte lo sono), ma del tutto marginali. Roba da fanatici del digitale, da maghi elettrici del XXI secolo. Eppure, se ci pensate, questo esatto pensiero, anche se in forma più sottile e più «dolce», oggi domina l’Occidente intero. All’interno del transumanesimo è soltanto tutto più esplicito, ma il desiderio di superare ogni limite dell’umano, la fede nelle capacità illimitate della scienza e la convinzione che se una cosa si può fare allora la si deve fare regolano tutta la nostra società. O almeno l’hanno regolata fino all’esplosione dell’epidemia di coronavirus. E se, oggi, qualcuno crede di poter costruire un futuro migliore basandoci su questi stessi presupposti o addirittura alimentando tendenze già esistenti, beh, si sbaglia di grosso.
Nel mio nuovo libro, La malattia del mondo, ora in uscita per Utet, ho cercato di prendere di petto questi argomenti. Un po’ come Kirsch, sono convinto che l’epidemia abbia fatto da catalizzatore per una serie di forze che già agivano in profondità sulla nostra vita. Il Covid-19 ha amplificato le malattie (del corpo e dello spirito) che già affliggevano l’essere umano. La prima delle quali è senz’altro la dismisura, cioè la brama di distruggere ogni confine e superare ogni limite.
Prigionieri della dismisura

Nel suo nuovo libro La malattia del mondo (edizioni Utet, 208 pagine, 15 euro) il giornalista e scrittore Francesco Borgonovo, firma di Panorama, spiega come la pandemia abbia amplificato non solo le fragilità del corpo ma anche le frenesie dell’animo moderno, a partire dal voler eliminare ogni frontiera in nome della globalizzazione: ideologia che, distruggendo spazi e tradizioni, alla fine si dimostra pericolosa e fallimentare.
Il disastro che ci ha colpito, a ben vedere, è stato per lo più una questione di limiti e confini. Tanto per cominciare, abbiamo forzato il nostro limite naturale: invece di convivere il più armoniosamente possibile con le altre forze del creato, le abbiamo sfruttate come padroni avidi, e alla fine ci è stato presentato il conto. Turbando l’equilibrio naturale, si è scatenato il virus. Il quale si è diffuso, pensate un po’, tramite il superamento di un altro confine, quello fra le specie (è il cosiddetto spillover). Una volta che la malattia si è sparsa per il globo, l’ideologia «sconfinata» ha colpito ancora. Prigionieri come siamo della dismisura, non abbiamo saputo chiudere tempestivamente le frontiere, non abbiamo voluto fermare il vortice della circolazione globale: il coronavirus, dalla Cina, è approdato in Germania, e da lì è giunto in Italia. Poi, il dramma.
Ed ecco che, quando il Covid-19 è calato nella nostra nazione, tutti i limiti sono tornati prepotentemente a galla: quelli delle nostre strutture sanitarie, della nostra potenza industriale, della nostra indipendenza economica dal resto del mondo. Abbiamo pagato il conto del progetto più smisurato che esista: la globalizzazione.
Eppure, a quanto risulta, non stiamo facendo nulla per cambiare direzione. Finora non c’è stata alcuna riflessione seria sulla necessità di cambiare modello di sviluppo. Anzi, i più continuano a battere sul tasto del progresso più sfrenato, affidandosi alla Tecnica come a una religione selvaggia che richiede sacrifici di sangue.
Questo sostengo nel mio libro: che se vogliamo evitare altre catastrofi, dobbiamo curare le malattie dell’anima che ci rosicchiavano già prima del virus, e che negli ultimi mesi sono dilagate. Per trovare una via di salvezza, non possiamo fare altro che riappropriarci del senso del limite. Che significa ritrovare il nostro posto all’interno del creato e di un ordine verticale; fermare la corsa dissennata di un progresso che non produce più benessere, bensì diseguaglianze crescenti; riappropriarci degli spazi e delle tradizioni che ci appartengono, e che vengono cancellati da un sistema livellatore e omologante. Se vogliamo salvare il nostro corpo dalle malattie del passato, del presente e del futuro, insomma, dobbiamo prima pensare a salvare la nostra anima. Non è un compito facile, ma è possibile riuscirci. A patto di cominciare adesso.