Il coronavirus muta sempre più veloce e nei laboratori si moltiplicano gli antidoti. Ma non tutti sono uguali (c’è già chi non vuole sottoporsi a quelli meno protettivi). E mentre la campagna di immunizzazione procede fra intoppi e imprevisti, si pensa a nuove strategie per accelerare: fare una sola dose a chi è guarito dall’infezione, mixare tra loro sieri diversi… Una cosa è certa: ogni anno dovremo aggiornare la formula per battere le varianti.
Alla fine, ci piacerebbe quasi poterlo scegliere come da catalogo: a me ispira fiducia il Moderna, io preferisco lo Pfizer, mi hanno parlato bene del Johnson & Johnson, guarda che arriva il Reithera, io mi fido dello Sputnik, i russi sanno il fatto loro… Non funziona così, ovviamente. Quando arriverà il turno di ognuno dentro quella siringa ci sarà il prodotto più adatto alla nostra fascia d’età, di categoria, di rischio. Detto così sembra semplice, in realtà nel «pentolone» delle formule anti-Covid c’è parecchio movimento: altri vaccini in arrivo, ulteriori studi su quelli già a disposizione, mutazioni virali con cui fare i conti, dibattiti sui livelli di efficacia, controversie sui tempi tra la prima dose e il richiamo, persino ipotesi di mixaggio fra sieri diversi.
Ad agitare le acque sono soprattutto due elementi: la rapidità sempre maggiore con cui il virus corre e si trasforma, e la limitata quantità di vaccini attualmente a disposizione. Dovendo immunizzare, solo in Italia, oltre 60 milioni di persone (o meglio, il 70 per cento di questa cifra per l’immunità di gregge) occorre farsi venire in mente strategie mirate per velocizzare i tempi e allargare la platea dei vaccinabili. Alchimie assortite per uscire dall’incubo di una pandemia che ci sembra infinita.
Per ora gli «scudi» disponibili contro il coronavirus, in Italia, sono tre: Pfizer-Biontech, Moderna e AstraZeneca. Quest’ultimo però, con un’efficacia accertata del 60 per cento (i primi due, a Rna, si aggirano intorno al 94 per cento) è diventato un po’ la Cenerentola dei vaccini. È indicato solo per chi ha meno di 55 anni, perché non ci sono dati sufficienti per dire che funziona bene sui più anziani, ma nessuno, in pratica, se lo vuole fare. Sui quotidiani, negli ultimi giorni, sono già arrivate diverse lettere di medici sotto i 55 anni che si rifiutano di accettarlo e vogliono quello Pfizer, come i loro colleghi più agés.
«Chi è esposto a tanti contatti deve in effetti ricevere una protezione elevata» afferma Gennaro Ciliberto, ordinario di Biologia molecolare all’Università di Catanzaro e direttore scientifico dell’Istituto nazionale tumori Regina Elena di Roma. «Per gli altri, visto che siamo in una situazione di limitata disponibilità, bisogna usare tutti i vaccini che ci sono, e quello di AstraZeneca al momento è l’unico che si è aggiunto. Nella categoria fino ai 55 anni il rischio di mortalità più basso ne compensa la minore efficacia».
Intanto, va chiarito un punto: protezione al 60 per cento non vuol dire che, se mi immunizzo con AstraZeneca, corro il 40 per cento di rischio di ammalarmi; bensì che su 100 persone che lo ricevono, 60 sono immunizzate e 40 potrebbero sviluppare la malattia perché, nel loro organismo, il vaccino per qualche ragione non ha innescato la produzione di anticorpi neutralizzanti (quelli «da battaglia»). Già, ma io come faccio a sapere, dopo l’iniezione, se rientro nella fascia «fortunata» o in quell’altra? «Bella domanda. In genere, e lo abbiamo visto con un nostro lavoro in fase di valutazione su un gruppo di operatori sanitari, con l’età il numero di anticorpi neutralizzanti indotti dal vaccino tende a calare» risponde Ciliberto. «In una buona organizzazione sanitaria andrebbe fatto un monitoraggio attento di tutti i vaccinati con il dosaggio degli anticorpi. Lo Stato deve cambiare passo, e spendere di più».
Detta così, sembra una possibilità lontana anni luce. Ma a quanto pare varie aziende stanno mettendo a punto test rapidi per misurare, con una goccia di sangue, il livello di anticorpi. Un kit che potrà, si spera presto, essere acquistato anche in farmacia, un po’ come quelli per la glicemia. Se si scopre che i propri anticorpi sono pochini, non sarebbe da escludere una terza dose del vaccino.
Nella danza lenta delle somministrazioni (al 6 febbraio il 2,14 per cento della popolazione ha ricevuto due dosi, la media europea è del 1,64), c’è chi ne propone una sola a chi il Covid l’ha superato; oppure, mettere i «guariti» in fondo alla lista d’attesa. Secondo Sergio Abrignani, direttore scientifico dell’Istituto nazionale di genetica molecolare Romeo ed Enrica Invernizzi di Milano, fare una dose sola non ha senso. Sarebbe più giusto, se c’è scarsità di vaccini, far scivolare in coda al calendario chi un minimo di immunità ce l’ha già. «L’urgenza resta proteggere in fretta, con i due migliori vaccini, quei 12 milioni di italiani sopra i 65 anni, il 90 per cento dei morti è lì» sostiene. «Così togliamo al mostro gran parte delle sue vittime. Mentre ritardare i tempi tra la prima dose e il richiamo, non rispettando ciò che dicono i protocolli, è pericoloso. Un vaccino è un principio medico, non una caramella».
Se scegliere il vaccino che «ci piace di più» non è un’opzione, nella comunità scientifica si discute l’ipotesi di mixare sieri di aziende diverse per potenziarne l’effetto finale. Per dire: prima dose con AstraZeneca e poi si prosegue con Pfizer, oppure dose iniziale con Moderna e richiamo con Sputnik… In Gran Bretagna, scrive Nature, l’Università di Oxford sta arruolando volontari per sperimentare una combinazione tra il siero AstraZeneca e quello Pfizer: in pratica, unire le forze di un vaccino che usa come vettore un adenovirus a quelle di un altro basato sull’Rna messaggero; in un secondo tempo, proverà anche il mix tra il vaccino AstraZeneca e lo Spunitk. «È possibile» ha detto a Nature il virologo Dan Barouch «che la risposta immunitaria che ne deriva sia migliore di quella ottenuta con un solo vaccino». Altro esempio: all’Università Cattolica della Corea, l’immunologo Jae-Hwan Nam ipotizza l’unione fra il vaccino AstraZeneca e l’americano Novavax, basato su proteine ricombinanti.
Cocktail spericolati? In realtà la combinazione di vaccini diversi, ricorda Ciliberto, è già stata fatta in passato (per il virus Ebola, nel caso della malaria, o in campo oncologico). «Certo non si può fare a casaccio usando la popolazione come cavia. Ma basterà una sperimentazione con numeri ridotti per verificare se due vaccini differenti che condividono lo stesso target, ossia la spike, producono una risposta immunitaria superiore».
Oggi, in ogni caso, prendiamo tutto quello che c’è, e va bene così. Se AstraZeneca, con la sua protezione del 60 per cento, non potrebbe mai garantire l’immunità di gregge, lo si usa perché c’è da muoversi in fretta. «Sarà ancora dura per i prossimi quattro o cinque mesi, ma dopo saremo inondati di vaccini, per un totale di circa 200 milioni di dosi» assicura Abrignani. «Tra marzo e aprile dovrebbe arrivare quello di Johnson&Johnson, cui basta una sola somministrazione, a maggio il Novavax con efficacia al 90 per cento, a luglio-agosto il Curevac, basato sull’Rna» .
Nel 2022, piuttosto, il problema sarà dover cambiare vaccino per aggirare le mutazioni sudafricana e brasiliana, che entro un anno saranno assai ben rappresentate e che non vengono riconosciute dai vaccini contro il ceppo cinese. In tal caso, quelli che impiegano adenovirus non potranno essere riutilizzati, perché alla seconda volta il sistema immunitario produce anticorpi contro le proteine del vettore virale impedendogli di entrare nelle cellule e di istruirle a «fabbricare» la spike del coronavirus. Non solo. Così come i vaccini basati su proteine ricombinanti, la piattaforma tecnologica che hanno alle spalle non è altrettanto «elastica» come quella a Rna da poter essere riaggiornata in tempi brevi.
Il futuro contro la pandemia sarà dei vaccini genetici, a Rna, riprogrammabili in poche settimane. «E poi, sì, faremo un richiamo contro le nuove varianti ogni volta che sarà necessario. Avremo bisogno di un piano vaccinale flessibile ma permanente, non improvvisato sull’emergenza, e pronto a immunizzare, con una singola dose, almeno 40 milioni di italiani».
