Nello scontro in corso nella regione del Tigray tra i ribelli del Tplf e l’esercito di Addis Abeba abbiamo cercato di fare chiarezza, al di là di notizie e «veline» rilanciate da fonti ufficiali e Ong che certo non contribuiscono a chiarire ragioni e responsabilità. Intanto, si è aggiunto il mistero di centinaia di veicoli di aiuti Onu che sembrano «scomparsi»
«Grazie per dire la verità», «Siete tra i pochi a mettere in luce aspetti nascosti dagli altri media». I messaggi sono tantissimi, arrivano sui principali canali social dove rimbalzano i servizi tv in lingua amarica. Al centro l’articolo di Panorama (n. 35 dello scorso 25 agosto: La guerra delle Ong, tra silenzi e propaganda). A scatenare l’attenzione dei media etiopi è la risposta che il portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury ci aveva rilasciato sul perché, nonostante segua da mesi la crisi in Tigray producendo report di accusa contro presunti crimini commessi dal premier etiope e dall’alleato eritreo, la Ong non abbia invece speso una parola sull’utilizzo di bambini soldato da parte dei ribelli del Tplf (Tigray people’s liberation front) in lotta contro il governo centrale, un crimine di guerra perseguibile dalla Corte penale internazionale. «Non siamo in grado di fare indagini a causa della difficoltà di accedere al territorio» aveva detto Noury, suscitando molte perplessità visto che gli altri report erano stati redatti sulla base di testimonianze raccolte per telefono o tra i campi profughi del Sudan, a centinaia di chilometri di distanza.
È la prima dichiarazione ufficiale rilasciata da Amnesty sulla questione ed è una notizia. Ma dentro l’interesse scatenato dal nostro servizio c’è di più: a quanto pare Panorama è stato tra i pochi a raccontare come il comportamento di Ong e agenzie umanitarie abbia assunto i contorni di un’operazione di propaganda a favore dei ribelli. Mentre il governo etiope viene accusato anche in assenza di prove certe, le responsabilità del Tplf sono sistematicamente omesse.
La tv pubblica Ethiopian broadcasting television ci intervista sulla «guerra mediatica che Stati Uniti ed Europa stanno portando avanti contro l’Etiopia e sul nostro tentativo di cercare la verità dei fatti dietro la propaganda». Parlando con i giornalisti Shiferaw Lakew ed Esleman Abey, leggendo i commenti, si percepisce la frustrazione di buona parte del popolo etiope per non avere voce e assistere impotente a una continua campagna di demonizzazione contro il proprio Paese. Nonostante il Tplf abbia esteso il conflitto alle regioni Afar e Amhara provocando centinaia di morti tra i civili e più di 500 mila sfollati, le denunce della comunità internazionale – con gli Usa in testa – sono state a dir poco flebili, con il risultato di legittimare l’operato dei ribelli e alimentare l’escalation di violenze. Il sospetto è che dopo le operazioni di «regime change», di cambiamento di regime, portate avanti in Libia, Iraq e Afghanistan, gli Stati Uniti, storici alleati del Tplf nei 27 anni in cui era stato alla guida dell’Etiopia, intravedano nell’allargarsi della guerra civile la possibilità di destituire l’attuale premier e ristabilire i vecchi equilibri ben più «amici» di Abiy Ahmed; il quale, a partire dalla scelta di mettersi di traverso all’Egitto sull’annosa vicenda della diga Gerd sul Nilo, ha mostrato di non assecondare la geopolitica americana.Come da copione, il presidente Joe Biden ha emesso un ordine esecutivo che prevede altre sanzioni contro l’Etiopia; per ora non operative ma lo diventeranno presto se non «cesseranno le violazioni dei diritti umani e non inizieranno i colloqui di pace nella regione settentrionale». Richiesta lunare che mette sullo stesso piano uno stato sovrano e un gruppo che gli stessi Stati Uniti avevano già classificato come terrorista, riconosciuto tale anche dal parlamento etiope; e che in linea con la sua agenda di realizzare un «grande Tigray», finora ha sempre rifiutato proposte di tregua e usato i negoziati per prendere tempo. Curiosa anche l’altra condizione posta da Biden che chiede «accesso umanitario incondizionato».
A rendere gli aiuti complicati infatti non sarebbe il governo etiope, che avrebbe ridotto i posti di blocco da sette a due, ma la «scomparsa» di ben 428 camion gestiti dal World food program, il programma di aiuti alimentari delle Nazioni Unite, entrati in Tigray nel luglio scorso. «Ne abbiamo bisogno per poter garantire gli aiuti» scrive @UNEthiopia facendo intendere di non sapere dove siano finiti nonostante ne sia il committente responsabile. I mezzi però non sono scomparsi nel nulla e, come mostrano diversi filmati reperibili in rete, sarebbero stati saccheggiati e utilizzati dal Tplf per trasportare i propri miliziani da una regione all’altra. Anche l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati, cade dalle nuvole di fronte a un altro «giallo» che riguarda il ritrovamento sui luoghi di guerra di tessere identificative con impresso il proprio logo rilasciate a presunti etiopi in fuga dagli scontri, finiti nei propri campi in Sudan. Nei mesi scorsi era circolata la notizia che molti di questi «profughi» fossero in realtà Samri, ovvero giovani combattenti tigrini ora rientrati in Etiopia per combattere. Curiosa la risposta dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite che, pur ammettendo che le decine di migliaia di rifugiati dal Tigray nei campi profughi in Sudan sono in diminuzione, al contempo ha detto di ignorare dove siano andati. n
