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Black bloc: il danno e la beffa

Black bloc: il danno e la beffa

Nel 2011, durante una manifestazione di black bloc a Roma, una molotov incendia l’abitazione della famiglia Grazi. Che oggi, dopo dieci anni di processi e ricorsi, si vede costretta a restituire a Viminale e Comune di Roma il risarcimento ottenuto legittimamente in primo grado.


È difficile stabilire se sia maggiore il danno o la beffa. Una casa ridotta in cenere dai black bloc, una sentenza che stabilisce un risarcimento di circa 180.000 euro, ma non definisce bene la responsabilità del ministero dell’Interno e di Roma Capitale, e una Corte d’appello che la ribalta rendendo inutile un ricorso in Cassazione.

Restano una famiglia sfortunata, una discutibile gestione dell’ordine pubblico, una carenza nella strategia difensiva insieme alla superficialità di un pronunciamento giudiziario che pure aveva riconosciuto il danno. Soprattutto, ci sono un sistema che considera lo stravolgimento della vita per colpa d’altri un «caso fortuito» e uno Stato che si disinteressa. Se non è un esempio di «summum ius, summa iniuria», ci siamo vicini.

Ricostruiamo i fatti. Il 15 ottobre 2011 a Roma fu organizzata una manifestazione per la «giornata europea dell’indignazione» e si temevano incidenti: Panorama del 28 settembre scrisse di un allarme basato su informazioni di intelligence per timori di guerriglia.
Infatti gli «indignados» danneggiarono immobili, la chiesa dei Santi Marcellino e Pietro e appiccarono incendi in via Labicana, tra il Colosseo e via Merulana.

Lì, al numero 17/A, c’era una caserma della Difesa con un alloggio dove abitavano Bruno Grazi, ingegnere, generale del Genio in pensione, e sua moglie Egle Castiglioni che ci raccontarono di aver visto un camioncino pieno di zaini e di caschi e poi i black bloc. I manifestanti sfondarono la parte in vetro del portone gettando alcune molotov all’interno: si incendiò un armadio a muro nell’atrio e le fiamme avvolsero l’appartamento al piano rialzato. Il generale e sua moglie si salvarono grazie ai vicini che li fecero scendere da un balconcino con una scala: lui aveva 76 anni, lei 67.

In pochi minuti erano scomparsi 42 anni di vita: libri di matematica, antichi e rari testi in latino, le passioni del generale; mobili e vasi di antiquariato comprati negli anni dalla signora Egle e che erano diventati «il museo della nonna», come lo chiamavano i quattro nipoti. Il 24 maggio 2017 la Seconda sezione civile del Tribunale condanna in solido Roma Capitale e il ministero dell’Interno a un risarcimento di circa 180.000 euro con gli interessi, ma la doccia fredda arriva il 23 luglio 2020 quando la Prima sezione civile della Corte d’appello ribalta il primo grado giudicando «insussistente» una colpa del ministero e del Campidoglio.

Che cosa è successo? Il Tribunale si è limitato a ricordare che l’ordine pubblico e la sicurezza sono garantiti dal Viminale e dal Comune e «ne consegue la loro responsabilità per i danni causati dalla manifestazione pubblica» anche perché non è «ravvisabile alcun caso fortuito». Una motivazione carente. L’avvocato Sara Kelany, che con il collega Giuseppe Corona ha preso a cuore la vicenda, non era il legale dei Grazi nei due giudizi e oggi spiega che «manca la prova che quello fosse un obiettivo sensibile» perché non era sufficiente la targa «ministero della Difesa, servizi di commissariato» affissa sul muro.

Anche se forse fu proprio la targa ad attirare i black bloc. «Diciamo che io avrei chiesto una perizia relativa al percorso dei manifestanti: cos’ha fatto lo Stato per decidere che cosa poteva essere considerato un obiettivo sensibile?». Dunque, in punta di diritto la Corte d’appello ha deciso che «non vi è prova di colpa» per aver protetto solo alcuni immobili lungo il percorso della manifestazione sostenendo anzi che il solo fatto che quell’edificio fosse della Difesa non giustificava un presidio e che di fronte a un’azione così imprevedibile «sussisterebbe in ogni caso il caso fortuito».

L’avvocato Kelany ricorda che «il dovere dello Stato non può essere esteso al controllo di un’intera area geografica e la responsabilità ricade su chi ha lanciato le molotov, ma perché quella caserma non fu definita un obiettivo sensibile? Oggi purtroppo rileviamo il disinteresse dello Stato nei confronti di un suo servitore che ha perso tutto, oltre a tante promesse disattese».

La famiglia Grazi deve restituire i soldi. Con un decreto ingiuntivo, Roma Capitale ha chiesto la propria quota e si sta discutendo su un pagamento rateale che si tenterà anche con il Viminale che non ha ancora agito. «Ci furono tanta solidarietà e promesse, poi più nulla» commenta il generale. Oggi ha 85 anni e ricorda che fu «l’allora sindaco Gianni Alemanno a prendere un impegno personale per un adeguato risarcimento», ma il Comune concesse appena 2.000 euro, «un obolo a dir poco offensivo», senza distinzione tra chi aveva perso tutto e chi solo una bicicletta. «Speravo di avere vicino lo Stato, che ritenevo di aver servito con dignità e impegno, invece si è sempre di più allontanato fino a sparire. Provo solo tanta amarezza». E adesso? Si può trovare nelle pieghe burocratiche locali e nazionali un pezzo di Stato che rimargini questa ferita?

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