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Così l’Italia fa salvataggi in mare

L’inviato di Panorama, a bordo delle motovedette della Guardia Costiera, racconta di un’umanità disperata e illusa che rischia la vita (e spesso la perde) su barchini malandati. E denuncia il ruolo di alcuni pescherecci tunisini che si rendono complici spietati di questo traffico.


Il faro della motovedetta CP 306 della Guardia costiera fende il buio della notte con il mare nero come pece. Una lama di luce che cerca disperatamente i migranti partiti dalla Tunisia. All’improvviso appare il barchino in lamiere di ferro saldate alla buona e stracolmo di una pietosa umanità in fuga dall’Africa, attratta da un Eldorado europeo che non esiste più: 43 anime, quasi tutti uomini, ma ci sono alcune donne e dei neonati follemente pigiati in una «bara» galleggiante che imbarca acqua. Qualcuno urla di paura, altri tremano per il freddo e i bambini piangono come se spuntassero dall’inferno. I pochi salvagenti sono le camere d’aria dei pneumatici.

«State calmi, seduti, non muovetevi. Vi porteremo in salvo» urla Ahmed Diallo, il mediatore culturale dell’Oim, costola dell’Onu per le migrazioni, che parla una babele di lingue, a cominciare dai dialetti subsahariani. Fondamentale per evitare che i migranti nella foga del soccorso si spostino tutti dal lato della motovedetta facendo capovolgere il barchino. L’equipaggio in tuta bianca protettiva contro Covid, scabbia e altre malattie è schierato su un fianco della motovedetta. Uno dei marinai esperti lancia una cima per tirare piano piano il barchino verso il tubolare arancione della classe 300. Agitazione e caos si mescolano con la barca che ondeggia; quando si affianca all’unità italiana scatta l’arrembaggio, tenuto a bada a stento dai veterani della Guardia costiera.

«Prima i bebè, prima i bebè!» intima gridando a squarciagola Antonino Baglio, il giovane soccorritore marittimo in muta arancione, elmetto, maschera e pinne pronte all’uso. Se qualcuno finisce in acqua è lui che deve tuffarsi per salvarlo come ha fatto pochi giorni prima con una decina di migranti. «Bisogna agire in fretta» racconta un sottocapo della Guardia costiera. «Ricordo un soccorso a febbraio, dopo un quarto d’ora quelli che non eravamo riusciti a portare a bordo galleggiavano annegati come una marea umana». I volti tirati, inzuppati, tremanti, i migranti sono issati dal barchino a forza di braccia, «uno a uno altrimenti rischiate di cadere in acqua» urlano i soccorritori. Una volta a bordo ridono, piangono, pregano ringraziando i salvatori in francese, inglese, talvolta in italiano.

Nella settimana dal 24 al 29 aprile è andata avanti così, giorno e notte, sul fronte del mare. Dalla prima linea di Lampedusa, ultimo lembo d’Italia, solo le motovedette della Guardia costiera hanno soccorso 2.493 migranti. Da inizio anno sono sbarcati in Italia 42.206 fino al 2 maggio: quattro volte tanto rispetto allo stesso periodo 2022 con un picco ad aprile di 14.516 arrivi illegali. In gran parte provengono da Costa d’Avorio, Guinea, Egitto, Pakistan, Bangladesh, pochi un fuga da conflitti, anche se l’esplosione della guerra in Sudan, con 800 mila profughi, fa temere il peggio. «Quando scendiamo sotto mare Forza due partono soprattutto dalla Tunisia. E da settembre usano i barchini con lamiere in ferro saldate e schiuma espansa per tenerle insieme. Un natante low cost, con oltre 40 migranti è a rischio naufragio» spiega il tenente di vascello Gaetano Roseo, 35 anni, comandante della capitaneria di Lampedusa.

La motovedetta 306, che in una sola notte ha soccorso due barchini, è salpata verso i «target» come vengono chiamati in gergo i natanti in difficoltà, dopo l’allarme lanciato da un paio di pescherecci tunisini. Una volta arrivati sul posto, 40 miglia a sud ovest, il ruolo dei «pescatori» appare subito ambiguo. «I migranti segnalano con la luce dei telefonini la loro presenza, ma è troppo debole. Abbiamo difficoltà a trovarli in mezzo al buio» dice il comandante Giuliano Fadda. I pescherecci, al contrario, sono illuminati a giorno e ciondolano in zona per indicare la presenza dei barchini. Spesso sono sempre gli stessi. Il fondato sospetto è che i migranti vengano nascosti sottobordo e il barchino trainato fino alle acque internazionali. Poi li caricano sulla «bara» galleggiante dirigendoli verso l’area di ricerca e soccorso italiana. Una volta lanciato l’allarme il gioco è fatto: i «pescatori» aspettano le motovedette e recuperano il motore fuoribordo, o talvolta lo stesso barchino che rivendono per la prossima traversata.

Il 28 aprile un peschereccio ha addirittura speronato un barchino per rimuovere il motore prima del salvataggio. Una bambina di quattro anni è caduta in mare scomparendo fra i flutti. Un video girato in marzo fa vedere il peggio: durante un soccorso multiplo con diversi barchini e naufraghi che rischiano di annegare, un’imbarcazione tunisina si affianca a un natante di ferro. Pur di prendersi il motore fuoribordo lo fa affondare con tutti i migranti. I soccorritori urlano disperati «Bastardo! Bastardo!». Namir Khan, giubbotto giallo e sorriso, è l’ultimo a essere salito a bordo della motovedetta 306 durante il salvataggio notturno. «Vengo dal Gambia. Siamo partiti da Sfax (un porto tunisino, ndr) due giorni fa e ho pagato fra i 300 e 400 euro» dichiara confermando la tratta low cost rispetto alla Libia.

Le storie dell’avamposto di Lampedusa sono drammatiche, ma anche di speranza. Il 20 dicembre, di notte, vengono recuperati diversi naufraghi. Uno non ce l’ha fatta, ma una donna che non respira viene rianimata dal medico del Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta (Cisom) sempre a bordo in coppia con un infermiere. «Un’altra donna ha partorito sulla motovedetta una bambina, Fatima» racconta il comandante Roberto Mangione. «Tocchi con mano la vita e la morte». In altri interventi «vai a prendere un barchino e ci sono neonati carbonizzati. Oppure sotto i vivi portati a bordo trovi lo strato dei morti».

Alcuni migranti hanno lo sguardo perso nel vuoto. «Bevono l’acqua di mare che provoca allucinazioni» spiega Marika Borettaz, infermeria del Cisom imbarcata sulla motovedetta CP 327. A sei miglia da Lampedusa l’unità intercetta, alle nove del mattino, un barcone in legno salpato da Sabrata, in Libia, con 118 uomini, 7 donne e 8 minori compresi tre neonati. Il mare per fortuna è tranquillo. Al timone, il comandante Giacomo Vella ne ha viste di peggio: «Un barcone con 300 persone in balia delle onde. Pensavo di non farcela, ma con un’altra motovedetta lo abbiamo stretto sulle due fiancate. I migranti sono saltati a bordo come cavallette». Per rilassarsi prima di arrivare sul «target» mette a tutto volume la canzone A mano a mano di Rino Gaetano.

I migranti provenienti da Egitto, Bangladesh, Eritrea, Somalia e Siria, una volta in salvo pregano verso la Mecca e alzano le mani al cielo per ringraziare Allah. Poi si fanno i selfie gridando «W l’Italia!», ma tra profughi e disgraziati c’è chi non ha alcun diritto all’asilo oppure porta la barba con i baffi rasati, segno distintivo dei salafiti. Un giovane ha una grossa aquila tatuata sulla schiena, che assomiglia al simbolo dell’Esercito libero siriano. Un padre di famiglia è partito con moglie e figli piccoli un mese fa. «Ho pagato 6 mila dollari per quattro persone» rivela. «Abbiamo preso l’aereo in Siria atterrando a Bengasi. Poi ci hanno trasferito a Zuara per imbarcarci vicino a Sabrata. Spero di dare ai miei figli una vita migliore». Bengasi è la «capitale» della Cirenaica sotto il controllo del generale Khalifa Haftar, appoggiato dai russi come il regime siriano. Però Zuara e Al Ajaylat, il punto di partenza, sono in Tripolitania a dimostrazione che la rete dei trafficanti è trasversale. «A Lampedusa abbiamo visto sbarcare di tutto: chihuahua, canarini e pure una pecora» racconta Alessandro Pieroni, responsabile logistico della missione del Cisom, finanziata dalla Comunità europea (cinque squadre di primo soccorso a bordo delle motovedette).

Non mancano criminali usciti dalle galere tunisine e sono in aumento i tossicodipendenti. Al molo Favarolo dove vengono sbarcati i migranti iniziano i controlli della Polizia. «Una donna tunisina, vestita all’occidentale, molto a modo e tranquilla, in realtà era una ricercata per terrorismo internazionale» rivela una fonte di Panorama. Sul molo il questore di Agrigento, Emanuele Ricifari, è impegnato nel trasferimento dei migranti in Sicilia. L’obiettivo primario è decongestionare l’hotspot dell’isola, che rischia di esplodere a ogni ondata. «Prevediamo un periodo molto intenso» ammette. «Preparandoci al peggio, saremo in grado di affrontare l’arrivo di 1.300 migranti al giorno».

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