La città-simbolo della guerra nell’ex Jugoslavia nel libro di due cronisti che erano là. Tra orrori infiniti e gesti d’umanità, una storia di ieri che l’Europa di oggi ha già pericolosamente rimosso. A seguire, la testimonianza del nostro inviato.
Scene da un matrimonio di sangue. È il primo marzo 1992 quando sul sagrato di un’antica chiesa ortodossa di Sarajevo un centinaio di invitati alle nozze fra un serbo cristiano e una bosniaca islamica si dirige verso il buffet. Da una Golf bianca comparsa all’improvviso partono colpi di pistola che uccidono il padre dello sposo. «Questa non è Serbia, andate a casa vostra!» grida la gente che circonda la chiesa. Quella stessa notte da Belgrado arriva l’ordine all’esercito di attestarsi sulle colline. Spiega Dragan Vikic´, capo dell’antiterrorismo: «Quei proiettili avevano il calibro di un attentato politico».
Secondo lui comincia allora uno dei più lunghi assedi della storia: 1.395 giorni (quasi quattro anni), meno di quello di Troia ma più dei 900 giorni di Leningrado. Con 11.541 morti (200 bambini) e 50.000 feriti. Poiché nei Balcani tutto è opinabile, la memorialistica ufficiale offre un’altra versione: il giorno X sarebbe un mese dopo, il 6 aprile, quando i cecchini di Radovan Karadžic´ sparano sulla folla dal quinto piano dell’hotel Holiday Inn, diventato per l’iconografia internazionale – bombardato, crivellato – uno dei luoghi simbolo dell’ultima guerra combattuta nel cuore del continente.
A 30 anni dai fatti, tutto questo è narrato con il passo del reportage e il respiro del grande affresco in Maledetta Sarajevo (Neri Pozza), libro scritto da Francesco Battistini (inviato del Corriere della Sera) e Marzio G. Mian (reporter con servizi in 56 Paesi) che coglie il senso più profondo del dramma consumato nella Gerusalemme d’Europa.
«Ai funerali di Tito piangevano tutti, ma non sapevano che stavano seppellendo anche la Jugoslavia» (gerarca con il fiuto allenato). «Questi popoli producono più storia di quanta ne possano digerire» (Winston Churchill). «Milosevic´ è un Al Capone travestito da Gandhi» (Margaret Thatcher). In tanti hanno provato a fermare la pellicola del tempo per dare un senso alla follia latente in una terra dov’era cominciata la Grande guerra; sempre lì Gavrilo Princip sparò all’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando. In tanti non riescono ancora a spiegare la deflagrazione degli anni Novanta quando uno dei più solidi Paesi non allineati è imploso dando vita a Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Kosovo.
Gli autori intervistano l’ergastolano Karadžic´ in carcere all’isola di Wight nonostante i bastoni fra le ruote delle autorità, il generale francese Philippe Morillon che a Srebrenica non seppe evitare il massacro degli islamici, Carla Del Ponte pubblica accusa al Tribunale de L’Aja per i crimini di guerra, lo svedese Carl Bildt inviato speciale dell’Onu per i Balcani. E quando Doctor K, detenuto numero A5935EQ, dice: «A un certo punto ci accorgemmo che nemmeno i gatti dei musulmani andavano d’accordo con i gatti dei serbi», battezza Sarajevo come epicentro multirazziale della mattanza.
Bersaglio dei cannoni e dei cecchini dell’esercito serbo, teatro di agguati e faide mentre la gente si arrabatta per non morire di fame, la città si trasforma in un immenso Fort Alamo. Una comédie humaine di eroismi e meschinità con l’hotel Holiday Inn sullo sfondo. Perché, come ricorda Martin Bell, inviato della Bbc: «Quello era il nostro Ground Zero. Non serviva uscire in strada per cercare la guerra, era la guerra a venire a cercarti».
Lì arrivano, con la risacca, storie pazzesche. Come quella di Steva Popov, il pilota d’aereo che con un vecchio Boeing 707 porta via i profughi dalla città in fiamme. «Vedo due bambini che si tengono per mano. Sono consapevoli del fatto che non riusciranno mai a farsi largo nel delirio generale. Stanno in piedi, immobili. Il più piccolo tiene in mano un asinello di pezza. Dove caricarli? L’aereo è strapieno: solo nella minuscola toilette stanno già quattro persone. Chiedo dove sono i loro genitori, ma non rispondono. Poi il maggiore dice che sul bus li ha caricati lo zio, i genitori sono morti per una granata, hanno parenti in Serbia. Allora li prendo, uno in braccio e uno per mano, e mi faccio largo tra la folla che m’insulta, mi strattona. Quei due bambini sono stati in cabina con me fino a Belgrado».
I mortai del «Generale morte» Ratko Mladic´ bombardano ogni ora ma Sarajevo resiste e lo farà sino alla fine della guerra. Sotto la pista dell’aeroporto, controllato dai caschi blu dell’Onu, c’è un tunnel attraverso cui passano i rifornimenti. La gente va a caccia di cibo e acqua per non morire, ma la caccia al cibo e all’acqua è anche la principale causa di morte. Scrivono Battistini e Mian: «Cose d’altre guerre, d’altri tempi. Sparano pure sulla Croce rossa, letteralmente e non per modo di dire, quando gli infermieri cercano di recuperare corpi che possono rimanere sul marciapiede per giorni».
Eppure la vita continua e con le sirene degli allarmi si sentono i campanelli che chiamano gli alunni a scuola. Nel delirio si organizzano «concerti tra i calcinacci, reading di poesia nei rifugi, l’elezione di Miss Sarajevo Assediata. Oggi, con la nostra capacità d’abusare delle parole fino a svuotarle di senso, la chiameremmo resilienza, e chissà quale battuta fulminante ci sparerebbero addosso i sarajevesi».
Mentre Sarajevo deflagra con quel che resta della Jugoslavia, l’Europa balbetta e il libro lo spiega a meraviglia. «Il 7 febbraio i Dodici avevano firmato il Trattato di Maastricht, atto fondante dell’Ue. E della moneta comune, l’euro. Già davano il peggio di sé. Ciechi davanti agli aggressori, sordi agli appelli d’aiuto delle donne che rischiavano la morte in fila per il pane, muti di fronte ai lager e agli stupri. In attesa del vincitore, per chiudere la partita e non pensarci più. Un fallimento alla prima prova del fuoco. Da allora, l’Ue non è più guarita dalla sindrome di Sarajevo, né s’è tolta di dosso lo stigma di potenza pavida».
Quell’assedio ha un particolare significato giornalistico: è l’ultima guerra combattuta senza internet, senza l’invadenza dei social e l’inganno del «copia-incolla», con gli inviati sul campo a cercare notizie evitando di farsi sparare addosso. Secondo Karadžic´, uno dei responsabili dei massacri, con la rete sarebbe andata peggio. «Avremmo avuto atrocità ancora maggiori. Istigazioni alla vendetta. Lo si vede anche nei Balcani d’oggi: con i social si mobilitano i figli di chi combatté allora, si preparano le vendette». Secondo altri invece la moltiplicazione web dell’orrore per le fosse comuni e i lager avrebbe interrotto prima il conflitto.
Resta come lapide immortale la storia di Bosko e Admira, scoop mondiale di Kurt Schork, inviato americano della Reuters. È una delle pagine più emozionanti del libro. Lui serbo e lei musulmana, si amavano fin dal liceo. Lui poteva scappare con la sua famiglia serba ma era rimasto per lei. Lei poteva nascondersi con i genitori musulmani, ma viveva con lui. Una notte avevano deciso di fuggire dalla follia ma sul ponte Vrbanja, dalle colline, un cecchino li aveva visti e li aveva inquadrati nel mirino: 25 colpi.
«Bosko era stato il primo a cadere, ucciso all’istante, mentre Admira s’era trascinata fino a lui, ferita. E l’aveva abbracciato per proteggerlo, una lunga agonia prima di morire. I loro corpi erano rimasti otto giorni sul ponte, sulla primissima linea di fuoco. Immobili in quell’abbraccio. Impossibili da recuperare». Schork sarebbe morto nel 2000 in Sierra Leone, ucciso in un’imboscata. È stato sepolto sulle note della sua band preferita, i Dire Straits. Brothers in arms e quell’altra, Romeo and Juliet.
Io, inviato nella guerra alla porta di casa
«Granad, granad…», urla ogni tanto Samir al volante di una scassata Citroën, dando gas lungo i tornanti del monte Igman nei punti dove l’artiglieria serba potrebbe ridurci in cenere. A vent’anni è già un veterano dell’esercito bosniaco, che va avanti a birra fregandosene dei precetti del Corano. Capelli biondi e sguardo perso nel vuoto della guerra, guida come Nuvolari giù per la «Montagna della morte» com’è stato subito soprannominato questo panettone boscoso che separa Sarajevo dal resto della Bosnia. Un tragitto obbligato che percorrerò tante volte nei 1.395 giorni di assedio.
La guerra alle porte di casa, che mai avrei pensato di raccontare partendo con la vecchia Polo targata TS per arrivare in poche ore nell’inferno di Sarajevo, dove riemergono i conti mai saldati con la storia della Jugoslavia di Tito. I giovanissimi croati al posto di blocco prima della capitale bosniaca sono in mimetica e kalashnikov nuovi di zecca. Tutti hanno i capelli rasati a zero, a parte una ciocca a forma di «u», orgoglioso simbolo del loro legame storico con gli ustascia di Ante Pavelic´, alleati del Terzo Reich e dell’Italia durante la Seconda guerra mondiale.
I cecchini bosniaci dei difensori di Sarajevo incidono sulle tavole di legno che tengono assieme i sacchetti di sabbia delle loro postazioni, i nomi dei reparti islamici inquadrati nelle Waffen SS naziste. Dall’alba surreale, dopo una notte di battaglia attorno alla città sott’assedio illuminata dai bengala, emerge dal fronte serbo un cetnico avvolto dalla nebbia con la bustina dell’esercito jugoslavo che si è sfaldato lungo le linee etniche. Capelli argento, moschetto d’altri tempi e coperta arrotolata a tracolla, pare un fantasma della Grande guerra.
Nella Seconda i partigiani cetnici, fedeli alla monarchia, hanno combattuto contro i comunisti di Tito. Sulla bustina non ha più la stella rossa, strappata via, ma lo stemma con l’aquila a due teste dei Karadordevic´, la casa regnante jugoslava dal 1921 al 1945. La via più «sicura» per arrivare in città è il tunnel, che ufficialmente non esiste. Un budello di 860 metri scavato sotto la pista dell’aeroporto. La vena giugulare per i rifornimenti di Sarajevo e l’evacuazione dei feriti. Una nebbiolina da fumo di sigarette avvolge la galleria con tanto di binari e carrello da minatori. Si cammina in fila indiana, a passo lento e piegati a metà in mezzo al fango e alle pozzanghere.
Il serpentone umano di militari e civili specializzati nella borsa nera è incessante nel budello semibuio che sembra crollarti addosso da un momento all’altro. In superficie, l’impatto a intermittenza delle granate serbe fa tremare la galleria. Una volta fuori, fra gli scheletri delle case martoriate dai combattimenti della periferia, inizia la vera roulette russa. Il tesserino dell’Unprofor serve per un passaggio su un blindato bianco dell’Onu. Non sempre i caschi blu, che si fanno impallinare dai cecchini, hanno voglia di darti un passaggio fino all’Holiday Inn, l’albergo dei giornalisti sventrato da una cannonata che l’ha trapassato. L’alternativa è una folle corsa in macchina lungo il viale Maresciallo Tito ribattezzato «Sniper Alley», corridoio dei cecchini, facendo slalom fra i proiettili.
Il biglietto da visita della città assediata è la tenebrosa scritta Welcome to hell, benvenuti all’inferno, con teschio e tibie incrociate su un muro scalpellato dai proiettili. A Sarajevo i civili, le vere vittime di ogni guerra, hanno fatto il callo ai bombardamenti. Dopo il primo tonfo a malapena riesco a mettermi in testa l’elmetto che piomba su Baksaschia, la città vecchia dove le case sono attaccate una all’altra, il secondo, terzo, quarto colpo di mortaio e così via, venti secondi uno dall’altro. Agli schianti fragorosi del bombardamento serbo si alternano i boati secchi delle cannonate dell’artiglieria bosniaca che risponde al fuoco.
Non resta altro che chiudersi nello scantinato con giubbotto antiproiettile, elmetto, spalle al muro e tappi nelle orecchie, sperando di essere fortunati sotto la pioggia di 303 granate lanciate sulla città in ventiquattr’ore. Quando torna la calma, l’orticello dei bosniaci vicino al rifugio nello scantinato è stato trasformato in un cratere da un colpo di mortaio. Sena, con i capelli ingrigiti dalla guerra, si lamenta: «E adesso come faccio a raccogliere le patate?».
Nella roccaforte di Pale, villaggio sulle colline vicino a Sarajevo, mi ritrovo con una pistola puntata alla tempia perché rifiuto l’ennesimo brindisi, non sopportando più la rakia (la fortissima grappa locale), con un gruppo di ufficiali dell’esercito serbo bosniaco che circonda la capitale. Il loro capo politico è Radovan Karadžic´, psichiatra e poeta dal ciuffo ribelle che incontrerò l’ultima volta nel 1997 nel suo ufficio presidenziale con tanto di tappeto rosso all’ingresso nell’ex fabbrica di tank di Pale. Ricercato per crimini di guerra, si spostava su una Mercedes nera con scorta passando sotto il naso dei soldati italiani di pattuglia poco più in là. Loro avevano l’ordine di far finta di niente.
Il generale Ratko Mladic´, comandante militare che sarà condannato per genocidio, ancora oggi viene considerato un eroe da molti serbi. Mimetica e collo taurino, è incollato a un binocolo sulla prima linea della battaglia che spazzerà via Goradže, un’enclave musulmana, provocando i primi, timidi, raid aerei occidentali. Al suo fianco un carro armato punta il cannone sulla cittadina avvolta dalle nuvole di fumo delle granate. Mladic´, noncurante della presenza di un giornalista, ordina di far fuoco.
Dal tank parte una fiammata e il colpo sibila nell’aria sbriciolando, dopo pochi secondi, il minareto di una moschea. «Era una postazione elevata per i cecchini» si limitano a dire gli uomini del generale, che con l’escalation dei raid aerei mi fanno intervistare i caschi blu presi in ostaggio e legati ai ponti o davanti alla caserme come scudi umani. Tutte le etnie hanno le mani sporche di sangue nel carnaio della Bosnia. I serbi sono stati demonizzati, talvolta a torto, più degli altri tagliagole del conflitto alle porte di casa nostra.
Però hanno il triste primato del più spaventoso massacro in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale: Srebrenica, dove 8.000 bosniaci musulmani sono stati passati per le armi. Non dimenticherò mai, nel 1996 a Nova Kassaba, la scoperta della prima fossa comune. Oltre 150 metri cubi di ossa, vestiti intrisi di fango e putrefazione. Il vero pugno allo stomaco sono i corpi avvinghiati nel terriccio di una donna con un giovane, probabilmente suo figlio. I polsi sono legati con il filo di ferro, come gli infoibati italiani scaraventati nella cavità carsiche dai partigiani di Tito.
La stessa pulizia etnica ripetuta con la madre di Srebrenica, che all’ultimo momento deve aver cercato di fare scudo al figlio con il suo corpo. Un disperato e inutile tentativo di fermare la raffica che ha travolto entrambi scaraventandoli nella fossa, dove sono stati ritrovati abbracciati per sempre.
Fausto Biloslavo
