Il presidente messicano López Obrador dichiara guerra alla Dea, l’agenzia antidroga americana, e assolve un suo generale accusato di traffico di stupefacenti. Anche perché il Paese, ora più che mai, si arricchisce producendo ed esportando metanfetamine.
«Via la Dea dal Messico». È il chiodo fisso del presidente messicano Andrés Manuel López Obrador da quando, il 15 ottobre scorso, è stato arrestato a Los Angeles il generale Salvador Cienfuegos, accusato di narcotraffico e riciclaggio dall’agenzia antidroga statunitense. Un terremoto visto che il generale era stato ministro della Difesa di Enrique Pena Nieto, il predecessore di AMLO, come in Messico tutti chiamano López Obrador. Da quell’arresto, l’odio del presidente contro l’antidroga statunitense è stato un crescendo, nonostante, per la prima volta, un presunto narcotrafficante di grande levatura sia stato restituito al Messico dagli Stati Uniti.
Subito una proposta di legge presentata in Parlamento per limitare al massimo l’operatività della Dea, poi l’assoluzione di Cienfuegos a tempo record e, se non bastasse, a metà gennaio AMLO che pubblica come un Julian Assange qualsiasi le 751 pagine di documenti riservati contenenti le prove contro Cienfuegos inviati da Washington a Città del Messico. «È un fatto gravissimo, anche perché mette a rischio gli agenti della Dea che, dal 2008, avevano il generale nel mirino» dice a Panorama Leonardo Silva, sino al 2015 a capo dell’ufficio Dea di Monterrey, nello stato di Nuevo León, dove lui stesso prese parte all’arresto di Miguel Treviño, il leader del cartello de Los Zetas.
La commistione tra militari e crimine organizzato in Messico è nota, basti pensare che Los Zetas sono composti da ex soldati e poliziotti. Inoltre, è «sorprendente che il Messico abbia assolto senza neanche un processo il generale» continua un’altra fonte di Washington, perché «il dipartimento di Giustizia statunitense e la Dea non accusano di reati tanto gravi una persona con l’alto profilo di Cienfuegos senza prove solide in mano». Tradotto: nessun procuratore decreta l’arresto di un generale messicano ex ministro della Difesa senza essere sicuro che ci siano evidenze sufficienti.
Del resto AMLO era stato chiaro sin dal suo primo giorno di presidenza: fare la pace coi narcos, offrire l’amnistia in cambio dell’addio alle armi, «più abbracci meno proiettili» il suo slogan, con i militari dalla sua. Per López Obrador la crudeltà dei cartelli narcos, che per contendersi il mercato della droga decapitano a ritmi 20 volte superiori a quelli dell’Isis, si risolve intervenendo sulle cause sociali della violenza. Il problema è che da quando è presidente, gli omicidi sono aumentati del 20%. La pandemia ha visto i cartelli sostituirsi allo Stato nell’assistere la popolazione, una figlia del Chapo ha persino creato una fondazione con il faccione del papà-boss come logo, ma l’isolamento non ha fatto calare gli omicidi: oltre 35.000 nel 2020, una media di 100 al giorno.
Il Messico è oggi persino più narco-Stato della Colombia degli anni Ottanta, quando Pablo Escobar, pur facendosi eleggere senatore, non riuscì mai a coronare il sogno di arrivare alla presidenza. Più narco-Stato perché, come si evince dagli stralci non secretati del processo al boss El Chapo, a New York, i tre ultimi presidenti messicani, Felipe Calderón, Enrique Peña Nieto e l’attuale, AMLO, sono stati accusati da testimoni come Reynaldo Zambada, alias «El Rey» (il fratello del «Mayo», la mente del Cartello di Sinaloa) di avere ricevuto milioni di dollari dai narcos in cambio di «compiacenza».
Accuse identiche erano scoppiate in Colombia contro l’ex presidente Ernesto Samper, la cui campagna elettorale fu finanziata dal cartello di Cali e per questo ancora oggi non può entrare negli Usa; ma almeno là una pantomima di processo si celebrò. In Messico, invece, di processi neanche l’ombra, e da quando si è insediato AMLO non fa che offrire esempi di come stia proteggendo le organizzazioni narcos. Lo si è visto a Culiacán, la capitale dello Stato di Sinaloa, a fine ottobre 2019. I militari messicani avevano arrestato Oviedo Guzmán e il presidente in persona ordinò alle truppe di liberare uno dei maggiori narcotrafficanti al mondo, nonché figlio prediletto del Chapo.
L’esponente delle forze dell’ordine che aveva arrestato Ovidio fu freddato una settimana dopo da una gragnuola di colpi di fronte in un centro commerciale ma né la sua morte, né il lutto dei suoi famigliari è mai stato preso in considerazione da López Obrador che, invece, un mese dopo si riunì a Sinaloa con la madre del Chapo, stringendo sorridente la mano della signora che viaggia solo su auto da 100.000 dollari in su.
«Non ho mai visto nessun presidente di nessun Paese fare questi gesti» si sfoga Silva, che nei suoi 15 anni trascorsi in Messico ha perduto molti colleghi. Con la scusa del caso Cienfuegos, ora AMLO minaccia di togliere l’immunità diplomatica ai 45 agenti Dea che operano in Messico e che a suo dire «si sono inventati prove fasulle». È stato lui a sollecitare la legge che giace in Parlamento in tal senso ma, di fatto, è un’assurdità visto che «non abbiamo mai avuto nessuna immunità diplomatica, né negli anni Ottanta, quando fu trucidato dai narcos il nostro miglior agente Kiki Camarena, né negli anni Novanta, quando molti miei colleghi erano presenti, né dopo, nel 2001, quando ho iniziato a indagare sulle metanfetamine» chiarisce Silva.
Insomma, le minacce di AMLO non danneggeranno tanto la Dea, che al massimo lascerà il Messico come già accaduto in Venezuela e Bolivia, ma la domanda da farsi è un’altra: chi trae profitto da questa guerra dichiarata ai 45 agenti americani antidroga oggi presenti nel Paese della tequila? Non di certo i cittadini messicani che lavorano onestamente. Le parole e l’operato di AMLO beneficiano solo i narcotrafficanti.
Se da un lato il presidente messicano sta facendo di tutto per interrompere ogni collaborazione con gli Stati Uniti in materia di lotta contro il narcotraffico – una brutta gatta da pelare per Joe Biden – dall’altro il suo Paese continua a produrre in media 30 tonnellate di metanfetamine e fentanyl al mese, con cui inonda proprio il vicino del Nord. Solo nel 2020 la produzione è aumentata del 500% e il motivo è semplice: si guadagna molto di più che con la coca. I profitti che i narcos messicani stanno facendo con le metanfetamine sono inimmaginabili, la stima degli analisti si aggira intorno ai 50 miliardi, perché non devono venire a patti con i produttori di coca colombiani, peruviani e boliviani.
«Acquistano i componenti chimici dalla Cina e poi li assemblano loro stessi in Messico e inviano questa droga terribile negli Stati Uniti» spiega Silva che conosce molto bene il meccanismo. «Le persone non lo sanno ma l’equivalente di un grano di sale grosso di fentanyl è in grado di uccidere una persona. Per cui una tonnellata di questo stupefacente può decimare la gioventù di un intero Paese. Sin dal 2001, quando ero a Guadalajara, nello Stato di Jalisco, mi occupavo proprio di combattere il nascente traffico di metanfetamine. Là scoprimmo che tutti i prodotti chimici per processarle nei laboratori dei narcos arrivavano dalla Cina, con un ruolo importante anche di Wuhan, la città dove si è poi sviluppato il Covid-19».
Il processo va dunque avanti da oltre 20 anni e oggi il cartello più potente in Messico è proprio quello di Jalisco perché ha il controllo di quasi tutti i porti messicani grazie alla «China connection» da cui arrivano i componenti chimici chiave destinati al grande business della morte del fentanyl. Che AMLO tollera e di cui non parla mai, a differenza della Dea, che deve andare «via dal Messico».
