Un processo e nuovi elementi per far luce sull’uccisione di Serena Mollicone: ma papà Gugliemo, spentosi il 31 maggio scorso, non avrà comunque giustizia.
«La soluzione di uno dei due casi porterà sicuramente a quella dell’altro». L’ultima volta che Guglielmo Mollicone ha parlato con il cronista di Panorama quel concetto lo ha ribadito. Era straconvinto che l’omicidio di sua figlia Serena fosse collegato a quella che sembrava l’inspiegabile morte del brigadiere Santino Tuzi. Alla fine Guglielmo se ne è andato il 31 maggio con il cuore devastato da 20 anni di bugie, calunnie e depistaggi.
E con la certezza, però, di un’ipotesi investigativa: sua figlia sarebbe stata uccisa in un luogo ben preciso, non lontano dalla cartolibreria della famiglia Mollicone, che si raggiunge lasciando la via principale del paese e percorrendo una traversa in salita, dove pochi metri dopo, sulla destra, c’è una costruzione imponente circondata da inferriate: la caserma del Comando stazione carabinieri di Arce, in provincia di Frosinone.
È scritto nero su bianco nella richiesta di rinvio a giudizio che il procuratore di Cassino Luciano D’Emmanuele ha mandato al giudice delle indagini preliminari. L’udienza in cui si deciderà se ci sarà un processo davanti alla Corte d’assise è fissata per fine giugno.
Il giudice Domenico Di Croce dovrà esprimersi sui capi d’imputazione che i pm hanno preparato per il maresciallo Franco Mottola, che all’epoca della scomparsa guidava il comando dei carabinieri di Arce, per sua moglie Anna Maria e per il figlio Marco, accusati di omicidio assieme a un altro maresciallo, Vincenzo Quatrale. Quest’ultimo è accusato anche di istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi, mentre il quinto indagato di questa torbida storia, l’appuntato Francesco Suprano, è sospettato di favoreggiamento.
Con la brutta storia del carrozziere Carmine Belli (arrestato nel 2003, tenuto in carcere per 17 mesi e assolto in via definitiva nel 2006) che finalmente viene ritenuta un agghiacciante depistaggio e, preso atto che il suicidio del brigadiere Santino Tuzi (nell’aprile 2008) fu spinto dalle pressioni per il pesantissimo segreto che custodiva (aver visto Serena entrare in quella caserma la mattina della sua scomparsa in un orario che in modo inquietante coincide con l’ora dell’omicidio), il mosaico del giallo di Arce, a leggere la documentazione con la quale la procura ritiene di poter corroborare l’accusa, sarebbe stato ricomposto. Pur lasciando ancora alcune zona d’ombra.
Per il brigadiere Tuzi, per esempio, si parla di istigazione al suicidio, ma ci sono dettagli che meriterebbero ulteriori approfondimenti. I suoi colleghi, intervenuti nel bosco dell’Anitrella, a qualche chilometro dal paese, con queste poche parole descrivono la scena dell’evento: «Sportello lato guida aperto, il brigadiere Tuzi seduto rigido sul posto di guida con il foro all’altezza del cuore, la propria pistola con il cane armato sul sedile destro e quindi chiaramente deceduto». Nella pistola del brigadiere, però, vengono ritrovati solo 12 proiettili. Dovevano essere 14, visto che nel caricatore della Beretta di colpi ce ne entrano 15 e che solo un colpo, stando alle relazioni di servizio scritte dai colleghi di Tuzi, è andato a segno.
Qualcuno tuttavia avrebbe dovuto considerare anche i residui di polvere da sparo: a seguito dell’esplosione di un colpo all’interno dell’abitacolo di un’auto, questo deve riempirsi di particelle di piombo, antimonio e bario. Le uniche analisi si concentrarono, però, sulle mani e sul corpo del brigadiere: la mano sinistra era sporca di sangue. E questo potrebbe far pensare che abbia sparato con quella. Ma dallo stesso documento dell’inchiesta giudiziaria – che all’epoca chiuse il caso Tuzi rubricandolo come un suicidio – solo poche righe dopo si apprende che anche la mano destra era sporca di sangue.
E infine bisognava rilevare e analizzare il cosiddetto segno di Felc, ovvero la traccia lasciata dal carrello della pistola semiautomatica nello spazio tra il pollice e l’indice. In un suicidio, dovendo mettere la canna della pistola a contatto con il corpo, si assume una posizione non naturale. Per cui, a seguito dello sparo, quando il carrello dell’arma torna indietro per permettere l’espulsione del bossolo e l’inserimento del nuovo proiettile, tocca inevitabilmente lo spazio di cute tra pollice e indice lasciando una traccia inconfondibile che si presenta come un piccolo binario. Questo non accade se chi si toglie la vita preme il grilletto con il pollice, comportamento atipico però, specialmente per chi è abituato a maneggiare armi di quel tipo.
Altra stranezza: in una delle foto scattate nell’auto appare il fodero della pistola. Ma i carabinieri verbalizzano che la mattina dell’11 aprile, ispezionando l’armadietto di Tuzi, avevano notato che dal fodero mancava la pistola. Quindi, doveva essere rimasto in caserma. È poi ricomparso in auto, presente e ben in vista nelle foto del fascicolo fotografico. Qualcuno, quindi, ha inquinato la scena dell’evento. E, a questo punto, gli aspetti oscuri diventano molti.
Come tante sono le coincidenze: anche il corpo di Serena viene ritrovato nel boschetto dell’Anitrella. Il cadavere era seminascosto nella vegetazione, in posizione supina. Sulla testa le era stato calato un sacchetto di nylon. Mani e piedi legati con fil di ferro e scotch. Lo stesso usato anche per tapparle il naso e la bocca. Ma non è l’unico dettaglio a collegare il caso Mollicone alla misteriosa morte del brigadiere Tuzi.
C’è un filmato girato da una tv privata il giorno del ritrovamento del cadavere di Tuzi. Nel video si sente un amico del brigadiere, Marco Malnati, che è anche padrino di battesimo dei suoi figli, gridare: «L’avete ammazzato voi, sapeva troppe cose sull’omicidio di Serena». Un particolare che fa il paio con il verbale sottoscritto dal brigadiere solo qualche giorno prima in procura: «Ho visto Serena Mollicone entrare in caserma alle 11 del mattino dell’1 giugno 2001 e fino a quando sono rimasto in servizio, erano le 14 e 30, non l’ho vista uscire». Una dichiarazione clamorosa.
Pochi giorni dopo questa deposizione, però, il brigadiere viene ritrovato senza vita. Una delle pietre angolari sulle quali la procura ritiene di aver poggiato l’inchiesta è proprio questa. Lo sanno bene i difensori dei Mottola, che stanno cercando di dimostrare come le dichiarazioni di Tuzi siano false.
L’altro elemento su cui si basa l’accusa è un avvenimento del 9 giugno 2001, giorno dei funerali di Serena nella chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Arce: papà Guglielmo col cuore in pezzi è alla testa del corteo funebre quando gli si avvicinano due carabinieri che lo invitano ad abbandonare la funzione religiosa per presentarsi in caserma per un interrogatorio.
Quella mossa, che ora sembra essere appunto il tassello di un diabolico puzzle, all’epoca insinuò nell’opinione pubblica il dubbio che l’omicidio di Serena potesse essere maturato in famiglia. Un’ipotesi fondata anche sul ritrovamento a sorpresa, la notte della veglia funebre, del telefonino di Serena a casa, riposto da qualcuno, probabilmente durante una perquisizione, in un cassettone dove non era mai stato. Quel telefono è stranamente privo di impronte, eccettuato per quelle di Guglielmo, che lo prese in mano per consegnarlo in caserma.
Ora quelle umiliazioni, al pari dell’arresto del carrozziere Belli, sono considerate da Guglielmo Mollicone uno dei grandi depistaggi di questa vicenda. La svolta ha due tappe fondamentali: una risale al 2010, con il deposito di una perizia della grafologa-criminologa Sara Cordella che ha dato una lettura diametralmente opposta al caso Tuzi. L’altra è del 2017, con il deposito di uno studio dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo sul cadavere di Serena, nel frattempo riesumato. Le analisi hanno accertato una ferita sull’arcata sopraccigliare della vittima che non era mai stata presa in considerazione e che è stata messa in relazione con una lesione su una porta della caserma.
L’ennesimo depistaggio viene scoperto da un sottufficiale del reparto operativo di Frosinone. Nel 2006, a cinque anni dal delitto, si accorse che c’era stata una svista nella richiesta di tabulati telefonici. Le ultime tre cifre del numero di Marco Mottola risultavano invertite ed era stato intercettato il telefono sbagliato. Uno dei tanti, troppi errori che in questi 20 anni hanno convinto i giallisti che il caso di Arce sia l’ennesimo dei grandi misteri italiani.
