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L’Arabia Saudita vuole l’Inter (per sfidare il Qatar), ma Suning vuole un miliardo

L’Arabia Saudita vuole l’Inter (per sfidare il Qatar), ma Suning vuole un miliardo

Cosa c’è di vero e cosa no nella tanto chiacchierata trattativa per il passaggio di proprietà dell’Inter dai cinesi di Suning al fondo sovrano dell’Arabia Saudita, Pif. Una sfida tra giganti dell’economia ma anche tra paesi arabi.


Dubai, Lussemburgo, Svizzera, Milano, con, ovviamente, Nanchino sullo sfondo. Sono questi i luoghi ove si svolge la trattativa per la (possibile) cessione dell’Inter da Suning agli Arabi, al fondo sovrano Pif (Private Investment Fund). Una trattativa nata da alcune certezze e che va oltre i silenzi o le smentite del caso.

Le Certezze

I Cinesi devono vendere. Dietro la parola «devono» non c’è una volontà personale o privata della famiglia Zhang, ma una decisione politica. Ancor più decisa se, come si dice a Pechino, nell’ormai prossimo Congresso del Partito Comunista cinese Xi Jinping dovrebbe confermare davanti al paese lo stop già di fatto esistente agli investimenti nel calcio. E conoscendo bene i rapporti di amicizia tra il premier e Zhang senior ecco che la direttiva del partito diventerebbe un ordine assoluto, da non discutere.

L’altra certezza è che la controparte, cioè gli arabi, sono davvero interessati al calcio come prodotto ed all’Inter come marchio. La nazione guidata da discusso principe Moammad Bin Salman infatti è impegnata in una guerra di potere con il vicino Qatar. Qatar che ha in mano in Paris Saint Germain delle stelle ed i Mondiali di calcio del prossimo anno (i primi invernali della storia). E così ecco l’idea: comprare una squadra dal blasone internazionale anche per rompere le uova nel paniera al vicino-nemico. Una battagli anche si gioca anche a Milano, dove il Qatar sta facendo pesanti acquisizioni immobiliari. Per Bin Salman mettere la sua bandiera sul nuovo stadio della città sarebbe un colpo da ko.

va aggiunto che la passione dell’Arabia Saudita per il pallone è testimoniata dal recente acquisto del Newcastle. Operazione però parallela a quella principale: l’acquisizione dell’Inter.

Ultima certezza, non meno importante: ci sono già stata contatti diretti tra le due parti, l’ultimo circa un mese fa.

I problemi

Come ogni trattativa, soprattutto quando si parla di cifre a 8 o 9 zeri, la volontà delle due parti che sembra convergere nel finale tanto atteso anche dai tifosi nerazzurri si deve scontrare con l’annosa ustione della differenza tra domanda ed offerta. Da una parte Suning valuta l’intervista un miliardo. Una cifra spropositata a guardare i conti, i bilanci, il fatturato ed il valore della rosa. Ma i cinesi nella cifra inseriscono anche il plus valore generato del nuovo stadio di Milano, che sul tavolo della trattativa, viene dato per certo.

Diverso, e lontanissimo, il pensiero del fondo Pif che non si scosta dall’offerta di 650, massimo 700 milioni messa sul tavolo.

Lo stadio poi, è il pensiero dei sauditi, non può rientrare già nella trattativa dato che, come insegna la storia ad esempio del nuovo stadio di Roma, più degli annunci sembrano pesare veti politici e la classica burocrazia italiana.

La Terza via

Siamo quindi allo stallo; è per questo che si sta cercando, soprattutto da parte saudita, una sponda, qualcuno o qualcosa che possa far cambiare idea alla famiglia Zhang. C’è infatti un terzo protagonista in questa storia: il fondo canadese Oaktree Capital che pochi mesi fa ha staccato un assegno di 275 milioni per salvare le casse (vuote) del club nerazzurro e garantirgli una stagione (quella in corso) economicamente sicura.

Il prestito però va ripagato e Suning, un po’ come fece Yongyong Li per il Milan con Elliot, ha dato in pegno la maggioranza delle azioni del club in caso di mancata restituzione del prestito, tra due anni e mezzo. Inutile dire che non si arriverà a tanto; Suning se si dovesse trovare costretta a vendere, alla fine accetterà l’offerta degli arabi. Ed è per questo che il fondo Pif si è messa in contatto con Oaktree per provare a forzare la mano all’avversario.

In una delicata partita a poker che si gioca in giro per il mondo.


Mohammed bin Salman prende tutto nonostante i nemici

Da una parte Mohammad bin Salman si accredita come innovatore della società saudita con progetti ciclopici. Dall’altra allarga

la sua sfera d’influenza in Occidente e reprime i dissensi nel suo Paese. Ecco la doppia strategia (e gli illustri sostenitori)
del principe più mediatico del Medio Oriente.

C’è un Paese apparentemente lontano, eppure a noi sempre più vicino, che tenta con fatica di guardare oltre le sue molte contraddizioni. Uno Stato al cui vertice siede oggi un uomo che intende imporsi con tutti i mezzi come leader globale. Quel Paese è l’Arabia Saudita, quell’uomo è il principe ereditario Mohammad bin Salman.

Vicino a lui sono molti i nemici, specialmente all’interno della sua cerchia ristretta. Chi lo sostiene si dice pronto a cambiare il Medio Oriente. Chi lo vuole disarcionare, invece, lo descrive come un despota sanguinario. Intanto, però, l’erede al trono di Riad ha posto le basi per affrancare l’intero Levante – e di conseguenza anche l’Occidente – dalla schiavitù petrolifera.

Il suo ambizioso progetto si chiama, come noto, Vision 2030. Ma lascia aperte molte incognite. A partire dal pugno di ferro con cui intende imporre quei cambiamenti, e dall’idiosincrasia per qualsiasi forma di dissenso. Ciò nonostante Mbs, l’acronimo che lo ha reso famoso nel mondo, va dritto per la sua strada e ha già piegato l’economia e le leggi saudite al sogno modernizzatore, moltiplicando gli aiuti economici ai Paesi che gravitano nella sua sfera di influenza.

Nella strategia globale del principe, un peso rilevante lo occupa il fondo sovrano: creato nel 1971 su basi che si direbbero agli antipodi della Vision – i cui cardini sono la diversificazione dell’economia, zero emissioni, sanità, istruzione, infrastrutture e turismo – oggi il suo valore è pari a quasi 400 miliardi di euro. E con quei soldi ha avvicinato a sé terre «difficili» ma religiosamente affini come Pakistan e Afghanistan, non meno che la diffidente Europa dove nei decenni sono affluiti miliardi di dollari, spesso per diffondere la versione più estrema dell’islam.

Per dare un’idea della grave ambiguità entro cui si muove Mbs, basti dire che da un lato l’Arabia Saudita lo scorso 23 ottobre, in occasione del lancio della Saudi Green Initiative (Sgi), ha annunciato di voler raggiungere la neutralità dalle energie fossili entro il 2060. Dall’altro, però, ha annunciato che la compagnia petrolifera di Stato, Saudi Aramco, quest’estate ha scoperto nuovi giacimenti che consentiranno a Riad di aumentare le riserve petrolifere: uno di gas, denominato Hadbat al-Hajarah, è stato scoperto nella regione di al-Jouf; mentre Abraq al-Taloul, gas e petrolio, è stato rilevato ad al-Hudud al-Shamaliyya, al confine con l’Iraq.

Il gas ha già iniziato a fluire dal serbatoio di Al-Sarra, nel campo di Hadbat Al-Hajarah, presso il confine iracheno. Nella medesima area, vi è anche un altro giacimento, al-Qawwarah, che si dice sia in grado di produrre 67.960 metri cubi di gas naturale. Intanto, dopo aver acquistato quote di aziende nei settori più disparati – dalle costruzioni alle app globali come Uber, dai resort di lusso all’arte museale – il fondo sovrano saudita per rifarsi l’immagine si è spinto fino a investire nelle squadre di calcio più blasonate del Vecchio continente.

È stato appena completato l’acquisto del Newcastle, storico club della premier league inglese, che ora può finalmente competere con il Manchester City del principe emiratino Mansur bin Zayed Al Nahyan e con il Paris Saint-Germain di proprietà della Qatar investment authority. E, si dice, sarebbe prossimo a sbarcare anche nella serie A italiana, acquistando l’Inter dalla famiglia cinese Zhang, nonostante le smentite piccate dei diretti interessati.

Nonostante i suoi sforzi, restano ombre sulla figura di Mbs, del tutto invisa a coloro che continuano a vedere nel temerario enfant prodige dei Saud una figura ossessionata dal potere, e nell’Arabia Saudita un Paese ipocrita nel dipingersi come modernizzatore perché in realtà resta ultraconservatore e oscurantista (valga l’esempio sulla difficoltà di emancipazione per le donne in una società profondamente maschilista).

E che la figura di Bin Salman risulti per occhi occidentali quantomeno controversa lo ha evidenziato anche la vicenda che interessa Matteo Renzi, l’ex premier italiano che, recatosi alla corte del leader saudita e inserito nel board del Future Investment Initiative Institute, la fondazione controllata dal fondo sovrano dell’Arabia Saudita, ha definito Vision 2030 e la missione modernizzatrice di Mbs come un «nuovo Rinascimento».

Tacciato di essere prezzolato e di blandire un personaggio scomodo e non in linea con gli standard europei su questioni quali i diritti umani, Renzi ha fatto fatto spallucce; tuttavia i molti episodi oscuri che coinvolgono Mbs dovrebbero suggerire, specie per un senatore della Repubblica, un ben più prudente approccio. Il riferimento è al caso del giornalista e dissidente Jamal Ahmad Khashoggi, scomparso nell’ambasciata saudita di Istanbul nel 2018 in circostanze mai chiarite e che, secondo i «detrattori» (tra cui l’intelligence statunitense) sarebbe stato ucciso e il suo corpo smembrato da sicari venuti appositamente dall’Arabia Saudita per impedirgli di criticare a livello internazionale Mbs.

Il principe ereditario ha comunque problemi anche in casa: «È uno psicopatico assassino con risorse infinite, che rappresenta una minaccia per il suo popolo, per gli americani e per il pianeta»: così, durante la trasmissione della Cbs 60 minutes Overtime, lo scorso 24 ottobre lo ha definito Saad bin Khalid Al Jabri, ex alto funzionario dell’intelligence saudita, in esilio in Canada dal maggio 2017.

L’uomo ha accusato l’erede al trono di Riad di aver pianificato addirittura l’omicidio del defunto re Abdullah per mezzo di un veleno nascosto in un anello (anche se, a dir la verità, il re si è spento serenamente all’età di 90 anni nel suo letto). Le parole di Mbs riportate da Al Jabri puntano a inchiodare il principe alle sue responsabilità.

Già nell’agosto del 2020, l’ex appartenente all’intelligence saudita aveva riferito che il principe aveva inviato in Canada una Hit Squad – ovvero una squadra di sicari – per «tappargli la bocca per sempre». Era l’ottobre 2018, la stessa epoca del caso Khashoggi. Nessuna prova è stata portata a sostegno. Intanto, però, i beni di Al Jabri in Canada sono stati congelati. Non solo, grazie all’influenza saudita in Nord America anche i figli dell’accusatore Omar e Sarah, di 23 e 21 anni, sono finiti in carcere dopo che un tribunale di Riad li ha condannati per riciclaggio di denaro sporco, cospirazione e tentata fuga dal regno.

Tutte accuse che la famiglia Jabri ha sempre respinto, e in riferimento alle quali ha chiamato in causa persino il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, pregandolo di intervenire: «Devo parlare apertamente. Faccio appello al popolo americano e all’amministrazione Usa per aiutarmi a liberare i miei figli» ha dichiarato l’oppositore del principe ereditario.

Tali accuse, vere o forzate che siano, rappresentano in ogni caso l’ennesimo capitolo della faida familiare per l’eredità politica dell’Arabia Saudita, che nel ricambio generazionale si appresta a vedere la nuova leadership del Paese radicalmente modificata, non appena re Salman (oggi 95enne) abdicherà in favore del 36enne principe. Così, mentre nei palazzi del potere di Riad si consuma una battaglia senza esclusione di colpi tra membri della famiglia Saud, uomini delle istituzioni e parenti più o meno lontani del Re, nelle aule di tribunale di Stati Uniti, Canada e Arabia Saudita va in scena la partita mediatica che vede il principe opporsi ai suoi detrattori.

Come sempre, insomma, tutto continua ancora a ruotare intorno ai petrodollari: il principale accusatore di Mbs, Al Jabri, per esempio, ha lavorato per anni al servizio del principe Mohammad bin Nayef, l’ex capo dell’intelligence saudita che guidò la lotta al terrorismo contro al Qaeda e gestiva con Al Jabri la Sakab Saudi Holding Company: una società collegata a una serie di controllate che erano di fatto società di copertura dei servizi segreti sauditi utilizzate nella lotta il terrorismo internazionale. Dopo che Mbs ha allontanato suo cugino Bin Nayef, la Sakab Saudi Holding Company è stata messa sotto il controllo di un nuovo direttore, a lui fedele. A quel punto lo scontro si è fatto più duro. Niente, però, sembra poter fermare il futuro re dell’Arabia Saudita. Il mondo e i suoi avversari sono avvisati.

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