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Manaus, la città che è arrivata all’immunità di gregge

Manaus, la città che è arrivata all’immunità di gregge

A Manaus, la capitale dell’Amazzonia, il 66% della popolazione ha contratto il Covid-19. E il virus, non trovando più corpi «disponibili», ha quasi smesso di circolare. Una strategia applicabile altrove? No, perché ha un prezzo, in termini di vite umane, insostenibile.


Che cosa succede, in piena pandemia, quando si lascia correre un virus in mezzo alla popolazione, senza alcun freno? Nessun Paese ha mai tentato un simile esperimento, neppure il premier inglese Boris Jonhson che pure, per un attimo, ci aveva pensato (quando un numero sufficiente di persone si saranno infettate di Covid-19, era l’effimero ragionamento, il virus prima o poi si fermerà).

Una risposta, sia pure involontaria, arriva dalla città brasiliana di Manaus: qui il 66% della popolazione, ossia 1,4 milioni di abitanti sui 2,2 milioni della metropoli, ha contratto il coronavirus, come dimostra un’indagine di ricercatori di Brasile e Regno Unito, pubblicata nei giorni scorsi sull’archivio online medRxiv.

Secondo lo studio, la capitale dell’Amazzonia è la città che ha avuto la maggiore percentuale di infettati da Covid-19 al mondo, con un Rt (il tasso di replicazione del virus) intorno al 2,5 ad aprile. Il totale dei decessi ufficiali è di 2.649, anche se la cifra è probabilmente sottostimata: un morto ogni 830 abitanti, con un record 111 vittime in un giorno solo, il 16 maggio. I motivi di questo galoppo pandemico? Condizioni socio-economiche basse, abitazioni e mezzi sovraffollati, scarso accesso all’acqua e quindi all’igiene.

Reportage drammatici mostravano il camposanto pubblico di Nossa Senhora Aparecida ormai colmo, e fosse comuni scavate in fretta e furia dalla comunità indigena, per il quadruplicarsi delle vittime in meno di un mese. Manaus era diventata il cimitero del Brasile. Oggi, però, la corsa del virus si è rallentata fin quasi a fermarsi. Nella metropoli sul fiume più grande del mondo, non muore quasi più nessuno. Le vittime sono scese a due/tre al giorno mentre negli ospedali, cinque mesi fa al tracollo, le terapie intensive sono praticamente vuote.

I ricercatori anglo-brasiliani, guidati da Ester C. Sabino dell’Istituto di medicina tropicale dell’Università di San Paolo, hanno iniziato a indagare sul «caso Manaus» subito dopo il boom di decessi delle prime settimane. I risultati dell’analisi mostrano che sì, l’immunità di gregge è possibile ed è il modo più naturale e veloce di mettere un argine alla pandemia, ma a un prezzo altissimo.

«Abbiamo trovato anticorpi di coronavirus nel 66% della popolazione di Manaus» spiega Sabino al telefono. «Per quanto ne sappiamo, questa è la più alta prevalenza al mondo. E il fatto che le morti siano diminuite rapidamente indica una correlazione diretta con la diffusione del virus». Nella nostra Val Seriana, per fare un confronto, che ha avuto una percentuale di contagiati comunque altissima, gli anticorpi al coronavirus sono stati rinvenuti nel 42,3% degli abitanti.

Nell’indagine, il team dei 33 ricercatori scrive che «la soglia di immunità di gregge è la proporzione di una popolazione che deve essere immune a una malattia, tramite infezione naturale o vaccinazione, in modo tale che, in assenza di misure preventive aggiuntive, i nuovi casi diminuiscano e il numero di replicazioni virali scenda sotto l’unità R1».

Quale debba essere la soglia di questo «muro» collettivo contro la pandemia non è del tutto chiaro, essendo il Covid-19 un virus troppo recente. Ma quel 66% individuato tramite i test sierologici, afferma Sabino, «può essere una risposta empirica. Sebbene distanziamento e mascherine possano aver contribuito a limitare i contagi, l’alto tasso di trasmissione seguito dal rapido declino nei casi suggeriscono che sia l’immunità di gregge ad aver avuto un ruolo determinante». Oggi Manaus sembra essersi liberata dall’incubo Covid. Dopo aver esaurito i corpi in cui riprodursi, il virus non circola quasi più. Che lezione trarne per il resto del Pianeta? Soprattutto, è una lezione che, in qualche modo, può essere seguita anche altrove?

La risposta non è univoca, innanzitutto per la composizione demografica di Manaus, una delle città più giovani al mondo, con appena il 10% della popolazione sopra i 50 anni, secondo l’Ibge, l’Istat brasiliano. Qui il tasso di mortalità da coronavirus (stimato dalla ricerca anglo-brasiliana) è stato tra lo 0,15 e lo 0,2%, ovvero un morto ogni 500/800 abitanti.

In Italia, al contrario, gli over 50 sono quasi la metà del totale della popolazione. E il prezzo di un’ipotetica immunità di gregge, se si lasciasse il virus libero di circolare, sarebbe insostenibile. Lo dicono i dati, del resto: sulle oltre 36.000 vittime italiane da Covid-19 (al 5 ottobre), solo 425 avevano meno di 50 anni.

E non vale solo per l’Italia. «Paesi più industrializzati e con un’età media molto più avanzata rispetto alla capitale dell’Amazzonia, come quelli europei o gli stessi Stati Uniti, conterebbero un numero assai maggiore di decessi rispetto a quanto avvenuto a Manaus» spiega Florian Krammer, immunologo e docente presso il Monte Sinai Hospital di New York. «Se è normale che Manaus abbia raggiunto livelli di immunità così alti da interrompere l’epidemia su scala locale, un’evoluzione del genere la considero più come un fallimento della sanità pubblica che una strategia di successo. Il segno che un governo non è riuscito a controllare l’epidemia, pagandolo con molte, troppe vite perse» conclude Krammer.

Negli Stati Uniti, per esempio, se i due terzi dei cittadini fossero stati contagiati con lo stesso tasso di letalità di Manaus, sarebbero morte mezzo milione di persone (contro le attuali 200 mila). In Brasile, che oggi ha circa 5 milioni di casi e 147.000 morti, avrebbe forse potuto essere attuata una sorta di circolazione controllata del virus, come aveva teorizzato l’ex ministro della Sanità Luiz Henrique Mandetta: «Non si deve chiudere tutto con un lockdown rigido, ma fare chiusure mirate che proteggano gli anziani, perché è persino un bene se, a piccole dosi, tutti veniamo in contatto con il virus, in modo da adattarci». Mandetta fu «licenziato» poco dopo dal presidente Jair Bolsonaro, che voleva imporre al ministro un protocollo sulla clorochina, poi dimostratasi poco efficace.

Infine, la grossa sfida dell’immunità di gregge è la sua durata, ancora incerta. Secondo Renato Kfouri, direttore della Società brasiliana di immunologia, «questa è una delle maggiori incognite del Covid-19. Primo, perché è difficile misurare chi è davvero immune: le persone che non hanno manifestato sintomi, per esempio, tendono a sviluppare meno anticorpi, pur acquisendo una qualche resistenza cellulare. Non solo, i pazienti meno gravi perdono anticorpi più rapidamente: stimiamo che tra tre o quattro mesi il 30-40% non ne avrà più».

È uno scenario che sembra incombere anche a Manaus dove, nonostante l’immunità raggiunta, dal 5 ottobre la città ha imposto limitazioni a bar e ristoranti nel timore di una seconda ondata, sebbene per ora il ministero della Salute brasiliano, contattato da Panorama, la escluda.

«Nel caso di una seconda ondata, Manaus potrà funzionare da “sentinella” per verificare la durata della protezione di gregge» conclude Sabino. «Oltre alla misurazione del livello di anticorpi nel sangue, un aumento dei casi di re-infezione dimostrerebbe che l’immunità di popolazione non è più uno scudo contro il virus. E questo porrebbe un problema per un vaccino efficace, visto che anch’esso si basa, come l’immunità di gregge, sulla copertura anticorpale».

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