La Redut, l’Academi, la Sadat, la Saic… Proliferano le compagnie private di militari che intervengono nei conflitti, gestiscono la sicurezza lungo le frontiere, supportano con le armi questo o quel governo. Si prestano a svolgere il «lavoro sporco» per conto di Paesi con mire internazionali. Dietro, s’intende, ottima remunerazione.
Nell’idea originaria di Vladimir Putin, il Wagner Group, la milizia privata del suo sodale Yevgeny Prigozhin, avrebbe dovuto operare sotto il controllo e agli ordini del ministero della Difesa, ma allo stesso tempo costituire un «esercito fantasma» i cui operativi non risultassero in alcun modo legati al Cremlino. Il motivo? Sottrarsi alle responsabilità formali per poter compiere incursioni illegali, finanche crimini di guerra. E, in caso di morte, non dover rispondere a famiglie, tribunali internazionali e alla legge.
L’intuizione di Putin e il loro uso smodato ha però prodotto squilibri evidenti: oggi ne vediamo i frutti avvelenati in Ucraina, dove più di una milizia privata ha reso il terreno di scontro una faida interna alle stesse forze russe. Non esiste solo la Wagner, però. E non è un fenomeno solo russo. Stati Uniti, Regno Unito e numerosi altri Paesi usano i mercenari per attività borderline che vanno dal difendere siti istituzionali al provocare colpi di stato. Il loro utilizzo è ormai prassi diffusa, nonostante la Convenzione Onu contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento e l’istruzione di mercenari ne vieti esplicitamente l’utilizzo.
Ben armati e addestrati, senza nome e senza volto, il loro impiego è meno costoso in termini di soldi (guadagnano dai 2.500 ai 7 mila dollari), dislocamento e giudizio dell’opinione pubblica. E dunque apparentemente vantaggioso. Ma ecco la problematica più evidente: a chi rispondono realmente? Come insegna Niccolò Machiavelli, «se uno [principe] tiene lo Stato suo fondato in sulle armi mercenarie, non starà mai fermo né sicuro; perché le sono disunite, ambiziose, senza disciplina, infedeli». Ne sia prova ancora l’Ucraina. Se Mosca oggi è in difficoltà è perché ha appaltato la presa di Kiev alla «concorrente» Redut: un’organizzazione militare privata, operativa nell’ex Jugoslavia, Caucaso, Iraq e Afghanistan. Anche questa società risponde al Gru, il servizio militare del Cremlino, che ne ha formato gli specialisti: tiratori scelti, genio militare, truppe di risposta rapida in contesti urbani e così via. Entrambe hanno potuto addestrarsi nelle basi russe, usare aeroporti militari, e nelle zone di conflitto hanno agito sotto il diretto controllo degli ufficiali del Gru.
Poi però, di fronte alle prime sconfitte – come in Siria, dove la Wagner è diventata obiettivo legittimo per gli Usa – sono iniziati i problemi, la competizione interna e le richieste di maggior denaro. La mancanza di un’adeguata disciplina militare ha fatto il resto: e così il vicecapo del Gru, il generale Vladimir Alekseev, nel 2022 ha lasciato al proprio destino i mercenari di Wagner e puntato tutto su Redut, al cui vertice ha posto un suo parente, Anatoly Karaziya. Con Prighozin in disgrazia e forte del favore del Cremlino, Karaziya, già nella Wagner, ha iniziato a reclutare uomini proprio tra i suoi ex colleghi e questo ha portato allo scontro frontale con Prigozhin: ma la mancata presa di Kiev proprio da parte di Redut ne ha oscurato in breve la stella e così il «cuoco di Putin» ha ripreso quota. In ogni caso, entrambe le formazioni hanno subìto ingenti perdite senza centrare gli obiettivi prefissati da Mosca.
Il «disastro perfetto» di Putin si sostanzia nella fiducia (mal)riposta anche verso altre compagnie paramilitari private: RSB-Group, che si autodefinisce una «società di consulenza militare che opera in aree con situazione politica instabile in coordinamento con il governo legittimo di altri Paesi»; Antiterror, una costola dell’Fsb, l’intelligence per la sicurezza interna, specializzata nell’addestramento di soldati per compiti speciali (ha operato in Iraq); la Mar, che organizza dietro il paravento di aiuti la logistica e la consegna di armi e munizioni; Moran Security Group, che da San Pietroburgo si concentra sulla protezione dei carichi marittimi e terrestri.
Tutte realtà di poche centinaia di uomini (solo Wagner ne avrebbe oltre cinquemila) a vario titolo impiegate nel contesto ucraino, e tutte risultate deludenti, quando non direttamente eversive: come dimostra il fenomeno della Legione Libertà alla Russia, una realtà nata dallo scontento (paga di 200 dollari più cibo e sigarette), fatta di ex soldati, dissidenti, contractor e volontari che intendono destituire il regime putiniano.
Ma sarebbe fuorviante limitare il discorso dei mercenari a Mosca. Chi ne fa largo uso da decenni è semmai Washington, tra l’altro patrocinatrice del termine contractor, abbreviazione di Private Security Contractors. Il giro d’affari americano intorno ai mercenari è da capogiro: il loro mercato vale circa 150 miliardi di dollari l’anno. La più redditizia è Academi, già nota come Blackwater: i suoi soldati privati operano in tutto il mondo fornendo assistenza, intelligence, operativi, e svolgendo anche compiti di polizia all’estero non meno che in patria. Per loro la paga può arrivare fino a 15 mila dollari al mese, e sono circa duemila effettivi. Questo l’ha messa in competizione con Saic, che si occupa di peacekeeping, ma assiste anche il Dipartimento della difesa, l’Fbi e altre agenzie federali nella lotta al terrorismo, alla criminalità informatica e alla proliferazione delle armi di distruzione di massa. E con Halliburton, specializzata nella protezione di infrastrutture critiche, specialmente nel settore energetico (impresa che conta più di 70 mila dipendenti che lavorano in oltre 80 Paesi).
Altra interessante compagnia di mercenari Usa è la Spear Operations Group, con sede nel Delaware, recentemente assunta dagli Emirati Arabi Uniti per svolgere operazioni in Yemen a sostegno dell’intervento nella guerra civile nel Paese. È stata fondata da Abraham Golan, un appaltatore della sicurezza ungherese-israeliano. E non è un caso, visto che anche Israele è ferrata in materia. Al punto che ai checkpoint con Palestina e Libano i soldati di Gerusalemme sono stati sostituiti da contractor privati: compagnie come Mikud Security, Ari Avtaha, Modi’in Ezrachi, Sheleg Lavan e S.B. Security Systems si occupano da tempo di evitare grilletti facili e scontri che possano degenerare in guerra aperta. Il processo di privatizzazione dei checkpoint risale ai primi anni Duemila, ai tempi della Seconda Intifada, quando l’allora governo Sharon emise un decreto per il trasferimento della gestione della sicurezza in mani private.
Il fenomeno è esploso alla fine della Guerra fredda quando il neoliberismo ha convinto i governi occidentali – a partire da Stati Uniti e Regno Unito – a investire in imprese commerciali tassabili e normate che, semplicemente partecipando ad appalti e bandi di gara, possono generare profitti ed evitare scandali. È il caso della Blackwater, che in Iraq ha fatto fortuna ma si è macchiata di crimini di guerra. Eppure, per coprire lo scandalo è bastato cambiare nome e sede. Ed ecco che realtà come Aegis, società britannica con uffici in Afghanistan e Bahrein, vive tranquillamente di appalti con l’Unione europea e le stesse Nazioni Unite, cui vende un’ampia gamma di servizi per la sicurezza. O Ama Associates dell’Essex, incorporata dal governo di Londra e la cui attività è cessata d’improvviso nel 2020 dopo aver cambiato più sedi e direttori (tra cui un italiano).
Non meno misteriosa la francese Secopex, fondata nel 2003 da un ex militare, Pierre Marziali, per condurre operazioni in Iraq, Kurdistan, Somalia e Repubblica Centrafricana. Marziali è poi morto in Libia: secondo un’inchiesta di due giornalisti francesi del 2014, sarebbe stato ucciso co iltacito accordo del governo francese, in quanto ostacolava le relazioni di Parigi con il Consiglio nazionale di transizione a Bengasi. Diverso il discorso della Sadat in Turchia: guidata dal generale in pensione Mehlika Tanriverdi, l’agenzia privata ha operato per il «Deep state» erdoganiano fino a che, dopo il tentato golpe del 2016, Erdogan l’ha nominato suo capo consigliere militare, e gli uomini della Sadat una sorta di giannizzeri alle dipendenze del presidente appena rieletto.
