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L’Iran al collasso cerca accordi a ogni costo

L’Iran al collasso cerca accordi a ogni costo

Prostrato da crisi economica ed emergenza Covid, il regime di Teheran vuole trattare con Joe Biden per abolire le sanzioni. La Cina, però, resta un prezioso salvagente. E nella partita a scacchi diplomatica torna in gioco l’Italia.


La cura per il Covid-19? Olio di viola mammola, secondo il religioso iraniano Abbas Tabrizian, strenuo oppositore della medicina occidentale. Questa e altre sparate, come dare fuoco in pubblico a un manuale di medicina interna, lo hanno trasformato in uno zimbello nazionale. Le autorità sanitarie locali hanno diffidato in generale la popolazione dall’utilizzare rimedi erboristici al posto dei farmaci. Gli iraniani però si rivolgono sempre più spesso agli attari, i negozietti di medicina tradizionale, sperando di trovare una cura contro la malattia.

Il Covid-19 dilaga in Iran molto più che nel resto del Medio Oriente. I vivi affollano gli ospedali e i morti riempiono i cimiteri, in cui si scavano freneticamente nuove tombe e fosse comuni. Ufficialmente i contagiati sono stati finora oltre 1,3 milioni, su 82 milioni di abitanti, e i decessi più di 56.000. Ufficiosamente molti di più, secondo diversi osservatori internazionali che accusano il regime di falsificare al ribasso i dati. L’emergenza sanitaria si è aggiunta alla grave crisi economica che da tre anni attanaglia l’Iran a causa dalle sanzioni americane. Un disastro da cui il regime potrà uscire solo strappando un nuovo accordo agli Stati Uniti. Risolvere un problema economico attraverso una battaglia politica internazionale però è tutt’altro che semplice. Preclusioni ideologiche e interferenze esterne minano il percorso negoziale.

Intanto, per le strade di Teheran e delle città di provincia si respira un’aria di tempesta perfetta: ai contagi si sommano disoccupazione e malnutrizione. Un iraniano su quattro abile al lavoro non ha un’occupazione: solo nel 2020 hanno perso il posto 1,5 milioni di persone, soprattutto lavoratori del turismo. Un terzo della popolazione del Paese si ritrova sotto la soglia di povertà e fatica persino a mettere abbastanza cibo sotto i denti. I prezzi di molti generi alimentari di base, come riso e pollo, sono infatti raddoppiati.

La via d’uscita da quelli che la stessa guida suprema Ali Khamenei ha definito «gli anni più difficili dai tempi della Rivoluzione» è un passaggio obbligato attraverso la fine delle sanzioni. Le misure punitive sono state rimesse in pista da Donald Trump nel 2018. L’allora presidente aveva sfilato gli Stati Uniti dal Jcpoa, l’accordo sul nucleare iraniano. Il patto era stato siglato nel 2015 sotto la presidenza Obama da Iran, Stati Uniti, Cina e i principali Paesi europei. In cambio della sospensione delle sanzioni allora già vigenti, gli ayatollah avevano acconsentito a limitare le attività nucleari, contenendo così l’arricchimento dell’uranio entro una soglia minima.

Ma Trump aveva invertito la rotta americana, rincarando la dose con ulteriori restrizioni. Scopo dichiarato: porre la «massima pressione» sul regime, affossando definitivamente i settori finanziario e petrolifero iraniani. Oggi alla scrivania dello Studio Ovale siede Joe Biden, che già in campagna elettorale si era detto pronto a tornare a negoziare con Teheran.

Una luce in fondo al tunnel per il regime, anche se la partenza è stata in salita. Il nuovo inquilino della Casa Bianca e gli ayatollah si sono subito incartati in un’impasse. L’Iran non è disposto a fare per primo un passo indietro per mostrare buona volontà e ha alzato la posta. Il 3 gennaio Teheran ha annunciato che avrebbe applicato una legge votata dal Parlamento iraniano lo scorso anno per portare l’arricchimento dell’uranio al 20%. Ben oltre il limite di 3,65% fissato a suo tempo dall’accordo, ma comunque una soglia ancora molto lontana dal 90% necessario per realizzare una bomba.

«Il Parlamento iraniano, dalle ultime elezioni, è a maggioranza conservatrice. I conservatori sono propensi, se non ad annullare le possibilità negoziali, ad assicurarsi comunque che l’Iran mantenga le proprie linee rosse sulla questione nucleare» spiega Aniseh Bassiri Tabrizi, senior research fellow del think tank inglese Rusi. «Successivamente all’eliminazione del capo del programma nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh, c’è stata una decisione anche da parte del governo Rohani di ripensare la sua strategia sul negoziato. Utilizzano la legge per rafforzare la propria posizione e accelerare il ritorno alla trattativa e al rispetto dell’accordo da parte di Biden già nella prima fase della sua amministrazione».

Il nuovo presidente americano ha problemi più grandi e più vicini a casa cui dare la precedenza. Come segnala Carlo Pelanda, professore di geopolitica economica all’Università degli studi Guglielmo Marconi, «la priorità per l’amministrazione americana è risolvere i nodi interni e trovare una convergenza con i centristi per vincere al Senato nelle elezioni di metà mandato. Sulla necessità di affrontare la Cina, il consenso politico è più ampio e in ogni caso Washington potrà telefonare a Pechino per far tenere a bada Teheran».

La Cina è diventata infatti il salvagente economico che mantiene a galla l’Iran. Dal 2009 la superpotenza asiatica è il principale partner commerciale del Paese mediorientale e, in particolare, il primo acquirente di petrolio e gas. Dal 2016 i due Paesi portano avanti una negoziazione, per lungo tempo condotta in gran segreto, per siglare un accordo di cooperazione venticinquennale. Alle latitudini persiane però non tutti sono fan del Dragone. Lo stesso ex presidente Mahmud Ahmadinejad ha denunciato l’accordo, definendolo «contrario agli interessi nazionali».

Per portare a casa una nuova intesa, il regime deve poi fare i conti con l’interferenza delle potenze regionali, a partire dai nemici giurati Israele e Arabia Saudita. La sola ipotesi di un Iran nucleare turba i sonni a Gerusalemme come a Riad. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il principe ereditario Mohamed bin Salman non potranno però più costituire lo stesso terzetto idilliaco messo in piedi con Trump, sempre pronto ad assecondarli. «L’Arabia Saudita e Israele dipendono dagli Stati Uniti per la propria sicurezza e per gli aiuti economici. Biden potrà dunque forzarli ad accettare un eventuale nuovo accordo» fa notare Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dell’Iai, Istituto affari internazionali.

L’ultimo vertice della complessa rete diplomatica su cui tessere un nuovo accordo è l’Europa. «Regno Unito, Francia e Germania sono più aggressivi degli stessi Stati Uniti e vorrebbero che nel nuovo accordo fossero limitati anche il programma missilistico e le attività militari all’estero dell’Iran. Due linee rosse invalicabili per la leadership politico-militare iraniana» spiega Nicola Pedde, direttore dell’Institute of global studies di Roma. «Da Teheran è arrivata quindi una straordinaria apertura verso l’Italia, ritenendoci in grado di comprendere meglio la partita rispetto agli altri Paesi europei e chiedendo di far sentire la nostra voce nei negoziati».
Il fascino italiano ha sempre avuto una certa presa sui cuori iraniani. Siamo il primo partner commerciale per Teheran tra i Paesi Ue, abbiamo mantenuto aperti i canali diplomatici nei momenti di maggiore tensione e ci siamo schierati a favore dell’accordo nucleare. Anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, a colloquio un anno fa col suo omologo iraniano, aveva definito il Jpcoa «un pilastro di sicurezza per l’area».

Il corteggiamento iraniano è già partito: l’ayatollah Ali Khamenei ha aperto dei profili in lingua italiana sulle principali piattaforme social. I suoi messaggi si possono leggere su Telegram, Facebook, Instagram e, da qualche settimana, pure su Twitter. Un’operazione portata avanti anche in altre lingue, dall’arabo al tedesco. In Iran sarebbe ufficialmente vietato «cinguettare», ma si sa, Teheran val bene un tweet.

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