Tra favoritismi e raccomandazioni, concorsi truccati e spese pazze, una quantità di indagini hanno coinvolto rettori e professori gettando un’ombra sui massimi istituti educativi del nostro Paese. Per far chiarezza, la parola passa dalle aule accademiche a quelle di tribunale.
«Il dipartimento di Veterinaria aveva bisogno di spostare un asino. Arriva Cuzzocrea e fa: “Ci penso io!”. Poi ha chiamato il suo maneggio. Ecco la spiegazione di una fattura da 600 euro». Il sindacalista Paolo Todaro, coriaceo membro del senato accademico, s’era intestardito. Tanto da spulciare, una per una, tutte le spese dell’Università di Messina. Dopo la sua denuncia, il rettore Salvatore Cuzzocrea ha deciso di lasciare l’incarico. E ha abbandonato pure la prestigiosissima guida della Crui, la conferenza che riunisce tutti i magnifici d’Italia. Insomma, non era solo un rettore. Ma il rettore fra i rettori. Un venerato primus inter pares. Costretto alle doppie dimissioni per i supposti e sontuosi rimborsi rivelati da Todaro.
Due milioni e 200 mila euro in meno di quattro anni, assicura il sindacalista fustigatore. Farebbero quarantamila euro al mese. E millenovecentoventi euro al giorno, sabato e domenica esclusi. Danari che sarebbero stati investiti in: spese di rappresentanza, riviste e giornali, carta e cancelleria, materiale di ricerca e laboratorio. Oltre a «servizi non altrimenti classificabili». E quattordici pagamenti a una società agricola della famiglia Cuzzocrea. Quella che, secondo l’accusa del senatore accademico, si sarebbe incaricata di spostare l’asino. Il magnifico dimissionario rivendica però ogni centesimo speso. Assicura di essersi immolato solamente per salvaguardare il suo ateneo. La sua scelta «deriva unicamente dal profondo rispetto che nutro per le istituzioni». E attacca la «macchina del fango».
L’ex rettorissimo, però, non è certo l’unico con l’ermellino insozzato. La rimborsopoli accademica sarebbe solo l’ultimo capitolo della Malauniversità. Decine di inchieste, centinaia di indagati, scoppiettanti processi. E c’è una specialità in cui i baroni non hanno mai smesso di brillare: i concorsi farlocchi, apparecchiati per i protetti, in spregio a ogni meritocrazia nei concorsi pubblici. Un semidio finito nella polvere è, per esempio, Massimo Galli: professore ordinario alla Statale di Milano, già capo infettivologo al Sacco, contundente star mediatica ai tempi del Covid. Un mese fa è stato rinviato a giudizio per la presunta concorsopoli meneghina. Avrebbe favorito il fidato Agostino Riva, anche lui a processo, per il posto da associato di malattie infettive nell’ospedale milanese. A dispetto, sostiene l’accusa, di un fastidioso ma rimediabile problemuccio. Avere la metà delle pubblicazioni e un dimezzato «H-index», inequivocabile misura dei titoli scientifici, rispetto al contendente: Massimo Puoti, primario dell’ospedale Niguarda.
L’allora primario del Sacco, ricostruisce la procura, aveva perfino chiesto aiuto al suo pupillo. «Dobbiamo ragionare, magari in due è meglio che one. Se no (i punteggi, ndr) li metto io alla c…, sperando che non ci siano casini e menate» dice a Riva in un’intercettazione del 3 febbraio 2020. È il giorno in cui, come testimoniano gli atti del concorso, viene specificato il metodo che avrebbe permesso a Riva di trionfare: «Posizione del nome del candidato quale primo o ultimo autore e posizione nella lista degli autori». Verbale «letto, approvato e sottoscritto». In calce, però, si legge solo la firma di Galli. «La seduta è tolta alle 12» viene dettagliato. Eppure, nel pomeriggio dello stesso giorno, i due sembrano ancora indaffaratissimi. «Scendi dalla Bianca (segretaria di Galli, ndr) e cominciamo a lavorare sull’assegnazione…», esorta il luminare. «Possono essere attribuiti a te e a lui per le varie questioni… Però non me lo far dire…». Sarebbe inelegante, certo. «Allora, senti, quanti lavori avevi presentato? Sedici? Ed erano tutti quanti a tuo primo e ultimo nome tranne uno, mi pare. E di argomento coprivano… Va beh, allora senti la frase che avevo scritto…». Infine, chiede conferma: «C’è tutto, no? Va bene, questo potrebbe andare e risolvere la questione».
Vita dura, quella del riverito accademico. «Spero non ci siano rogne, insomma» spiega Galli a uno degli altri commissari. «Mi auguro che una delle due domande vada a sparì… se no viene fuori un bel casino, voglio dire… Ma sparire per logica eh, non dico per pressione». Anche Puoti capisce l’antifona. Al telefono si sfoga con la moglie: «Sono riusciti a fregarmi sui titoli. Nel senso che una pubblicazione su Science è stata equiparata a una rivista comune. Non conta l’indice di impatto della rivista, conta solo la posizione del nome nel lavoro». Il primario del Niguarda si ritira dunque dal concorso. Chiama Galli: «Niente, Massimo, quella cosa lì l’ho sistemata, non so se hai visto…». Il professore apprezza: «Ti ringrazio e ne parleremo. Il mio appoggio ce l’avrai in tutte le sedi possibili, eh». Una delle tante telefonate diventate adesso l’architrave dell’accusa. L’infettivologo, dopo la decisione dei giudici milanesi, però commenta: «È una vicenda grottesca. Nelle università dobbiamo poter scegliere i ricercatori più bravi e funzionali». Lui non piazza certo «raccomandati». Difatti, anticipa, «non credo che sarò dichiarato colpevole».
In un altro filone dell’inchiesta che ha coinvolto Galli sono stati rinviati a giudizio pure i rettori della Statale e del San Raffaele: Elio Franzini ed Enrico Gherlone. Non è solo la procura milanese, però, ad aver indagato sui concorsi truccati. A Catania sono già a processo due ex rettori, Francesco Basile e Giacomo Pignataro, assieme a sette capi di dipartimento. Nelle scorse settimane, sono state riascoltate in aula le eloquenti intercettazioni dell’inchiesta. Come il colloquio in cui Basile esplicita la filosofia accademica etnea: «Ne ho uno al giorno che viene per un problema di parentela… Alla fine qua siamo tutti parenti. Penso sia perché l’università nasce su una base abbastanza ristretta: una specie di élite culturale della città, perché fino a ora sono sempre quelle le famiglie». A partire dalla sua: inarrivabile accademico il padre, stimati ordinari i fratelli.
Lo scorso settembre, dopo un’altra roboante indagine, hanno chiesto il processo per 33 persone, tra cui alcuni illustri docenti dell’università di Firenze. Come l’ex rettore, Luigi Dei, che s’era già dimesso per l’inchiesta, e l’ex prorettore Paolo Bechi. Per anni, secondo la procura, un comitato di «baroni» avrebbe pilotato i concorsi a Medicina. Anche stavolta, l’imperturbabile loquacità ha tradito. Il professor Dei, in un’intercettazione, raccomanda prudenza a un collega: «Ti immagini se si va a dire che si fa un concorso e si sa già chi viene…». A processo sono finite pure le selezioni di diritto tributario nell’ateneo di Sassari. Che, un mese fa, ha ricevuto un’altra visita dei carabinieri, dopo l’arresto di 31 presunti appartenenti a un gruppo criminale sardo. E sono stati sequestrati i documenti sull’elezione del rettore Gavino Mariotti, non indagato.
Giocando sul pomposo appellativo riservato ai capi ateneo, a Reggio Calabria c’hanno perfino intitolato un’inchiesta: «Magnifica». Ha coinvolto l’ex rettore Marcello Zimbone, costretto alle dimissioni, e il suo predecessore, il prorettore Pasquale Catanoso. Dalle conversazioni carpite, emergerebbero i maneggi per tentare sminuire i titoli della candidata più capace. «Togli qualche cosa. Togli, togli, togli…» intima uno. L’altro annuisce: «Smorzo». Il primo concorda: «Smorza abbondantemente, sì». Due mesi fa è arrivato anche l’avviso di conclusione delle indagini ai quindici dell’università di Genova: tra cui Lara Trucco, ex prorettrice, e il costituzionalista Pasquale Costanzo, suo maestro accademico. Lei avrebbe favorito il figliolo dell’emerito nella selezione per un assegno di ricerca.
A dicembre comincerà pure il processo per la concorsopoli al Policlinico di Palermo. «Ho cercato di infilare i miei, la famiglia, tutto quanto» ammette uno dei baroni intercettati. «Ogni volta che ho avuto un piccolo spazio ho cercato di andarlo a occupare, sempre con i miei figli nel cuore». A onor del vero, i chiarissimi ordinari si spendono anche al di fuori della più stretta cerchia familiare. Vedi: «Quello che ho messo in cattedra a Roma con una forzatura particolarmente pesante». Insomma, il metodo palermitano è collaudatissimo: «Uno lo piazzi tu, uno lo piazzo io». Detto altrimenti: «Fifty-fifty». Una mano lava l’altra. Finché inchiesta non le separi.
