Tutti concentrati sul coronavirus, non ci siamo accorti che in Medio Oriente è escalation fra americani e miliziani filo-Teheran.
«In Iraq il braccio di ferro armato fra le milizie sciite filo Teheran e gli americani non si è mai smorzato. E negli ultimi giorni abbiamo assistito a un’escalation» racconta a Panorama una fonte militare in prima linea. Il coronavirus ha offuscato tutto e in Italia non ci siamo accorti che il campo di battaglia iracheno è tornato improvvisamente caldo.
Caccia americani hanno bombardato basi e unità dei miliziani sciiti integrate nelle forze armate locali. Una rappresaglia ai lanci dei razzi dei filo iraniani contro obiettivi Usa. L’11 marzo 18 razzi Katyusha hanno investito il campo di Taji, a nord di Baghdad, la più importante base della coalizione alleata al di fuori della capitale. Due soldati americani e un britannico sono rimasti uccisi dalle schegge.
Non è un caso che l’attacco sia scattato il giorno della nascita del generale iraniano Qassem Soleimani, che avrebbe compiuto 63 anni se non fosse stato incenerito il 3 gennaio da un drone americano. Assieme al comandante della forza Al Qods, l’unità speciale dei Pasdaran iraniani per le operazioni all’estero, è stato ammazzato Abu Mahdi al Muhandes, vice capo delle Forze di mobilitazione popolare irachene, un potente cartello di milizie sciite.
«In un momento di grave emergenza interna a causa del virus Covid-19, l’Iran non ha interesse a scatenare un’escalation con gli Usa» scrive Federico Borsari, analista dell”Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano. «E negli ultimi mesi si è limitato ad una coordinazione più cauta con le fazioni irachene lasciando a quest’ultime maggiori margini di manovra nella lotta contro gli interessi americani in Iraq».
Per il Pentagono l’uccisione di soldati Usa è una linea rossa. Il segretario alla Difesa Mark T. Esper aveva detto chiaramente che gli autori del bombardamento di Taji non «se la caveranno». Il generale Kenneth McKenzie, che guida il comando centrale Usa, ha puntato subito il dito contro Kataeb Hezbollah, una milizia sciita fra le più estremiste. Da ottobre le forze Usa hanno subito 23 attacchi oltre all’assalto all’ambasciata americana alla fine dello scorso anno, che ha portato all’uccisione di Soleimani e alla rappresaglia iraniana con il lancio di un’ondata di missili balistici su obiettivi Usa in Iraq scelto come campo di battaglia.
Nella notte fra il 12 e 13 marzo il Pentagono ha lanciato cinque raid aerei a sud di Baghdad colpendo anche l’aeroporto civile di Karbala, città santa per gli sciiti, dove l’obiettivo sarebbe stato un deposito di munizioni. Gli altri bersagli bombardati sono la 19° divisione dell’Esercito iracheno, il quartier generale della 46° divisione delle Unità popolari e il 3° reggimento di polizia della provincia di Babel. Tutte unità integrate nelle forze armate e di sicurezza irachene in teoria alleate degli americani nella lotta allo Stato islamico, che ancora infesta il paese con cellule clandestine. Il ministero degli Esteri iracheno ha bollato come «atto ostile» i raid americani protestando con le Nazioni Unite e convocando gli ambasciatori Usa e del Regno Unito.
Ventiquattro ore dopo la rappresaglia a stelle e strisce sono stati lanciati altri razzi sempre sulla base di Taij, addirittura di giorno, ma questa volta provocando solo feriti. I 1100 soldati italiani della coalizione anti terrorismo sono tutti nel Nord, a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno relativamente al sicuro. «Solitamente attaccano con il buio piazzando dei tubi lanciatori con un timer» spiega la fonte di Panorama sul terreno. «La novità è che adesso piazzano trappole esplosive collegate alle Katyusha artigianali». Così chi arriva sul posto rischia di saltare in aria. Il generale McKenzie ha spiegato che c’era «un’illusione di ritorno alla normalità» dopo i venti di guerra con l’Iran di gennaio, ma «un’ampia attività di intelligence e gli ultimi attacchi indicano la volontà del regime iraniano di perseguire obiettivi maligni».
La vera vendetta dei Pasdaran per l’eliminazione del loro comandante è cacciare i 6.000 soldati americani dall’Iraq sapendo che gran parte degli alleati, compresi gli italiani, seguirebbero a ruota. Il 5 gennaio il parlamento iracheno ha votato la fine dell’intervento americano in Iraq, ma il paese da oltre quattro mesi è senza un governo che dovrebbe imporre il ritiro. Nelle ultime ore sembra che il presidente iracheno, Barham Salih, voglia affidare a Naim Abdul-Malik al Suhail la guida dell’esecutivo, un politico sciita a capo dell’Alleanza delle tribù irachene vicino alla coalizione politica dell’ex primo ministro Nuri al Maliki.
Tutto dipenderà dalle due forze maggioritarie in parlamento guidate dai leader sciiti Moqtada al Sadr e Hadi al Ameri, che vogliono rimandare a casa le truppe Usa. L’altra incognita è la protesta di piazza, che continua dallo scorso anno e ha già provocato centinaia di morti. I manifestanti sono soprattutto giovani decisi a battersi contro la corruzione, la disoccupazione, che fra la popolazione istruita sfiora il 40% e le interferenze esterne a cominciare da quelle degli ayatollah di Teheran. I consolati iraniani a Najaf e Karbala sono stati dati alle fiamme.
L’escalation della battaglia anti americana delle milizie sciite dipenderà anche dallo sviluppo dell’epidemia di Covid 19. Al momento in Iraq vengono segnalati solo 110 positivi e 10 decessi, ma il timore del contagio in un Paese con servizi sanitari non all’altezza dell’emergenza ha fatto scattare dal 15 marzo il coprifuoco notturno per una settimana.
Nel frattempo un comandante dell’Esercito del Mahdi, la storica milizia fondata da Muqtada Al Sadr, ha postato un video inquietante con delle bambine che «giocano» sistemando dei razzi di Rpg. Il commento non lascia dubbi: «Queste sono le mie figlie. Immaginatevi gli uomini. Siamo pronti a combattere contro gli americani e i loro alleati».