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L’era della immondizia cosmica

L’era della immondizia cosmica

Milioni di detriti in orbita intorno alla Terra: pezzi di satelliti, rottami, frammenti di missili con la potenza distruttiva di un proiettile di caccia grossa… Uno spazio dove le collisioni (e le cadute) sono diventate un pericolo troppo grosso per poterlo ancora ignorare.


Se in una notte limpida alzate gli occhi al cielo, stupefatti dalla quantità di stelle che luccicano sopra le vostre teste, sappiate che molti dei corpi celesti sono costituiti da ben più prosaica spazzatura. Cosmica, certo, ma pur sempre spazzatura. Detriti di satelliti, pezzi di sonde, bulloni, frammenti di navicelle, polvere metallica proveniente da scontri e impatti fra tutti gli oggetti che, in 60 anni di spensierata esplorazione spaziale, abbiamo lanciato oltre la nostra atmosfera. Dove non c’è, purtroppo, una gigantesca ramazza che li spazzerà via.

Di «immondizia» orbitante si è occupato nei giorni scorsi anche il National Geographic Festival delle Scienze (tutti gli incontri sono sul sito ufficiale o sulla pagina facebook). Ma perché dovrebbe importarci dei rifiuti spaziali, con tutti quelli che abbiamo sulla Terra? In fondo neppure li vediamo, e nessuno è mai morto per un detrito caduto dall’alto…

Vero (anche se non si sa mai, specie in questo 2020). Il problema però non è tanto che qualche pezzetto ci piombi in testa, bensì che quell’ammasso di oggetti grandi, piccoli e minuscoli che, come una nube perenne, circonda il nostro pianeta è diventato ormai difficilmente sostenibile. Mette a rischio l’incolumità e l’efficienza di molti satelliti (anche per le telecomunicazioni), di missioni esplorative, di sonde che se ne vanno in giro, della Stazione spaziale internazionale (la Iss) la più grande infrastruttura orbitante costruita dall’uomo che, a circa 420 chilometri di quota, è un bersaglio relativamente facile da centrare. E dal momento che di missioni ne partono in continuazione, quel vortice di entropia cosmica non potrà che aumentare.

«All’inizio dell’esplorazione dell’universo nessuno pensava che questo potesse diventare un problema» spiega Alberto Buzzoni, rappresentante dell’Inaf-Osservatorio di Bologna nell’Ocis, l’organismo per il coordinamento delle attività di sorveglianza spaziale e difesa in Italia. «Dopo qualche tempo, si è capito cosa stava succedendo. Perché ogni volta che si mette in orbita un satellite o un’astronave, ci vuole un missile la cui punta è una sorta di bocca di coccodrillo che un certo momento, fuori dall’atmosfera terrestre, si apre e libera il suo carico». Il missile resta poi lì, appeso al nulla, con i suoi bulloni, chiodi e viti che prima o poi si staccano. «Piccoli oggetti che potrebbero sembrare innocui, senonché viaggiano a otto chilometri al secondo, ossia 30 mila chilometri all’ora. Ha idea di cosa significhi?». Nulla di buono, già lo immaginiamo. «A quella ipervelocità anche un bulloncino ha una potenza venti volte maggiore di un proiettile da caccia grossa. E se impatta contro una sonda, causa grossi danni».

A parte il pericolo di collisioni in orbita, succede anche che un satellite senza più controllo ricada sulla Terra. Incidenti di questo tipo, in passato, ce ne sono stati. Nel luglio 1979, la stazione americana Skylab, 78 tonnellate di peso, dopo un lento processo di decadimento orbitale cadde sulla Terra e una pioggia di detriti finì in una zona disabitata (per fortuna) dell’Australia. E nel 1996 i rottami di un satellite spia russo passarono, sopra il Pacifico, pericolosamente vicini a un aereo con 270 passeggeri a bordo. Quando gli shuttle facevano avanti e indietro dalla terra a lassù, tornavano alla base con segni di impatti e i vetri da cambiare, come un’auto presa di mira dai vandali. Oggi, infine, la «casa» degli astronauti, la Iss, deve spostarsi un po’ per scansare frammenti svolazzanti. «La scorsa settimana ha compiuto una manovra per evitare un detrito. E deve farlo cinque o sei volte l’anno per mettersi in sicurezza» ricorda Buzzoni.

Che lo spazio cominciasse a riempirsi di oggetti indesiderati se ne accorse, per primo, il fisico Donald Kessler della Nasa (oggi 80enne), e lo scenario da lui ipotizzato prese il nome di sindrome di Kessler: guardate, avvertì quel consulente dell’agenzia spaziale americana, che il vero problema per le missioni in orbita non sono i meteoriti, bensì il volume di detriti intorno alla Terra che, a questi ritmi, diventerà così elevato che gli oggetti in orbita finiranno per entrare in collisione, generando reazioni a catena. Esattamente ciò che avviene oggi. Ogni bullone che impatta con un oggetto più grande, per esempio un satellite, crea migliaia di pezzettini che diventano ulteriori proiettili e così via. Una specie di Big bang continuo dell’immondizia cosmica.

Censire i rifiuti orbitanti non è impresa da poco. Quello che sappiamo è che la Terra è avvolta, un po’ come una cipolla, da tre strati di detriti: un primo addensamento poco sopra la base orbitante, più o meno a 600 chilometri di quota, un secondo assai più in alto, a circa 20 chilometri di altezza (la zona del traffico Gps della navigazione satellitare), e un terzo, a 20 mila chilometri, il regno dei satelliti geostazionari. E mentre gli oggetti grandi sono facilmente localizzabili (alcuni satelliti sono luminosi e visibili da Terra), quelli piccoli potrebbero essere milioni.

«Ormai il guaio è fatto, dobbiamo evitare che aumenti» dice Ettore Perozzi, responsabile della Sorveglianza spaziale dell’Agenzia spaziale itliana. «In uno spazio così affollato si deve fare un censimento di queste mine vaganti e aggiornarlo di continuo». L’Europa, per esempio, ha un suo catalogo di oggetti orbitanti, così come gli Stati Uniti, ma sono ovviamente incompleti. E non esiste ancora una legge dello spazio che, come quella del mare, dia regole di comportamento. Se un satellite cinese va fuori controllo, per esempio, l’Italia non può abbordarlo e tirarlo giù perché innescherebbe una crisi diplomatica. In teoria, ognuno dovrebbe prendersi il proprio detrito, ma i costi sono esorbitanti. «Si fanno riunioni fra le agenzie spaziali per gestire meglio i lanci, ma mettere in pratica queste strategie è costoso» dice Perozzi.

Tra le strategie che si stanno adottando, c’è quella di dotare i mezzi di maggiore carburante così che possano essere rimossi dalle zone più trafficate; una maggiore raffinatezza di procedure di lancio e recupero pezzi; e progettare da Terra i satelliti in modo che facciano, da soli, una serie di operazioni.

Ossia? «In un satellite, dopo che ha concluso la sua missione, ci sono tante cose che continuano ad andare avanti» risponde Perozzi. «Batterie ed elettricità ancora in funzione, benzina… Se il satellite ha un cortocircuito, si innesca un’esplosione con migliaia di frammenti. Quindi, a fine operatività, l’indicazione sarà fargli spegnere tutto e svuotare i serbatoi tramite ordini inviati da Terra». Dal momento che nello spazio non esiste un carro attrezzi, un’altra idea è concepire satelliti che si rompano in maniera furba. È quanto prevede il progetto europeo Red Shift del 2019, a guida italiana, che mappa le strade orbitali dove farli rientrare. «Ha presente una tavoletta di cioccolata fatta a quadratini? Sono satelliti costruiti per far sì che si infrangano lungo linee di frattura ben definite, creando tanti pezzi che poi bruciano nell’atmosfera» spiega Perozzi.

Infine, pilotare da Terra i satelliti affinché si dirigano nelle cosiddette «orbite cimitero», dove non ci sono rotte commerciali o scientifiche e dove migliaia di rottami vagano nel nulla. Anche sulla Terra esiste un luogo analogo, nell’oceano Pacifico: il punto Nemo (come il capitano dei romanzi di Jules Verne), detto anche, meravigliosamente, «polo dell’inaccessibilità». Un camposanto sottomarino di relitti cosmici sepolti nel punto dell’oceano più lontano da qualsiasi terra emersa.

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