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Il Covid degli oggetti perduti

Messi in quarantena, distrutti o semplicemente smarriti. La ricerca straziante degli effetti personali dei morti da coronavirus.


Il telefonino con i video e le foto ricordo di una vita perduti per sempre. La fede ritrovata dopo tre mesi e mezzo, gli occhiali, le pantofole, il rasoio elettrico smarriti o distrutti per timore del contagio. Anche le catenine, i ciondoli, gli orecchini, l’orologio, le chiavi di casa, le carte di credito o la foto ingiallita dal tempo della famiglia mai più ritrovati nello tsunami della pandemia che ha travolto l’Italia. Il danno collaterale del Covid-19, come in guerra, è la penosa ricerca che i familiari delle vittime fanno degli effetti personali dei loro cari. Il ricordo tangibile di chi non c’è più e non hai neppure avuto la possibilità di tenere per mano negli ultimi attimi di vita.

«Il cellulare con le foto delle nipotine e quelle scattate assieme, l’orologio che la famiglia gli ha regalato a gennaio per l’ultimo compleanno sono oggetti di grande valore affettivo per me. Le ultime cose che ha toccato prima di venire stroncato dal virus» dice a Panorama Lorella Micucci da Iesi, in provincia di Ancona. Il marito, Marcello, è morto il 19 marzo a 58 anni all’ospedale Carlo Urbani. La coppia era volontaria della Croce rossa. «Mi hanno chiamato dicendo che mio marito non ce l’aveva fatta» racconta la signora. «Gli oggetti personali avrebbero dovuto essere consegnati all’impresa funebre, ma non avevano nulla. Un infermiere ha visto una busta nera, ma poi non sapeva che fine avesse fatto».

Lorella non si dà per vinta e un nipote che smanetta con il computer geolocalizza il cellulare. «Era stato gettato in un cassonetto dei rifiuti non speciali» spiega. «L’azienda sanitaria mi ha promesso che sarebbe intervenuta per fermare lo smaltimento, ma eravamo ancora in emergenza Covid e nessuno poteva andare ad aprire i sacchi dell’immondizia».

Sul cellulare buttato via c’erano pure i codici della banca. «Anche gli occhiali da vista, l’orologio, tutto perduto per incuria» si rammarica Lorella, membro del gruppo «Noi denunceremo», che vuole trovare i responsabili delle mancate zone rosse nell’area di Bergamo e delle troppe morti nelle case di riposo.

Il caso di Iesi non è il solo come dimostra la decina di segnalazioni a Trieste, dove in gran parte gli effetti personali sono stati ritrovati e consegnati, anche se ci sono voluti mesi. «Mia suocera Franca è mancata per il virus. Dopo un ricovero per un lieve ictus è stata contagiata in ospedale. Nella sua stanza su cinque pazienti quattro sono deceduti» racconta un triestino che preferisce mantenere l’anonimato. «L’altra faccia della tragedia è che abbiamo atteso due mesi e mezzo per farci restituire la fede. Mio suocero, che ha fatto cremare il corpo, voleva metterla sull’urna delle ceneri come ricordo» spiega la fonte di Panorama. «Solo dopo avere denunciato il fatto sulla stampa locale abbiamo ricevuto, qualche giorno dopo, la fede e gli orecchini. I vestiti e anche la borsetta erano stati distrutti per timore del contagio».

L’azienda sanitaria di Trieste conferma «che i beni dei pazienti venivano insacchettati e messi in quarantena. All’inizio, non essendo note le caratteristiche di infettività residua del virus, la quarantena è stata molto lunga, dell’ordine del mese. Successivamente è stato possibile ridurne i tempi prima della consegna».

L’uffico legale ha preso a cuore i casi problematici, ma per Valdemara Amolaro, 76 anni, ci sono poche speranze di tornare in possesso degli effetti personali del marito, uno dei primi deceduti per il virus nel capoluogo giuliano. «Non riesco a mettermi il cuore in pace. A parte le pantofole, il pigiama, le ultime cose che indossava, figlio e nipote volevano avere come ricordo almeno il rasoio elettrico di Vitoluciano» dice la vedova. «La caposala mi aveva detto che i suoi oggetti erano stati chiusi in uno scatolone, ma c’era l’isolamento e non potevo andare in ospedale. Poi il reparto Covid è stato dismesso e sembra che la cooperativa, pulendo tutto, abbia buttato via anche lo scatolone con scritto “indumenti infetti”, che conteneva gli effetti personali non solo di mio marito».

Nell’emergenza provocata dalla pandemia gli oggetti dei pazienti erano l’ultimo dei problemi. E si temeva la trasmissione del virus. Il fotografo vicentino, Mauro Pozzer, ha documentato la «guerra» contro il nemico invisibile dentro l’ospedale San Bortolo di Vicenza con il toccante reportage Nessuno si salva da solo. Non dimenticherà mai «il sotterraneo delle malattie infettive dove ho visto una stanza ripostiglio piena di sacchetti di plastica nera contenenti gli effetti personali dei pazienti. Gli oggetti dei morti Covid, che dovevano essere bruciati». Pozzer racconta a Panorama che «le fedi venivano messe in sacchetti anti-contagio per la sanificazione e restituzione. Quello che le vittime avevano addosso, a cominciare dai vestiti e talvolta foto e documenti, andavano direttamente all’inceneritore per evitare il contagio».

A Civitanova Marche l’infermiere e sindacalista del reparto di rianimazione, Marcello Evangelista, ha aiutato i parenti delle vittime a recuperare gli effetti personali dei loro cari. «Il primo obiettivo era salvare vite» spiega. «I contagiati arrivavano a ondate con i vestiti e tutti gli effetti personali addosso. La prima cosa da fare era denudarli e smaltire gli indumenti nei rifiuti speciali». Evangelista ammette che nell’emergenza «non potevamo pensare alla monetina, al piccolo ricordo, ma le fedi, il portafoglio, le catenine venivano infilati dentro le buste del materiale infetto per salvarli. Qualche effetto personale sarà andato perduto, ma tanti sono stati riconsegnati ai familiari».

L’infermiere con 25 anni di esperienza viene chiamato da una signora che ha perso il marito: «Sto cercando la carta d’identità, la patente, qualsiasi cosa mi faccia ricordare di lui». Evangelista l’aiuta: «Ho aperto la porta di uno stanzino e mi sono trovato di fronte a un mucchio di sacconi neri ognuno con il nome di un paziente. Un brivido mi ha percorso la schiena e sono crollato a terra, in ginocchio di fronte a quello che restava delle vittime del Covid».

L’infermiere è rimasto immobile, «cercando di immaginare la vita di una persona racchiusa in un sacco della spazzatura». Come segretario regionale Uil Fpl, sa che «qualcosa è andato perso oppure ritrovato nei rifiuti o mescolato alla biancheria sporca, ma nessuno l’ha fatto apposta. I primi a chiedere scusa ai familiari siamo noi personale sanitario, anche se bisogna capire cosa significa l’arrivo di 3-4 pazienti assieme in condizioni drammatiche».

In diverse parti d’Italia i familiari hanno scritto lettere accorate alla stampa come il portale d’informazione Cittadellaspezia.com. «Sono la figlia di un uomo che è entrato in ospedale il 6 marzo per un motivo diverso da quello che lo ha portato alla morte nella giornata del 22 marzo, cioè questo maledetto virus» si legge in rete. La figlia ha chiesto gli oggetti del papà: «Ero sconvolta, quando sono riuscita a parlare con la caposala era troppo tardi: tutto smaltito». E si domanda: «È giusto che gli effetti personali vengano smaltiti tutti? È già molto triste non riavere il cellulare, l’orologio e altre cose, ma i documenti, le carte di credito, le chiavi di casa sono oggetti che possono servire a chi resta, per tutte quelle pratiche da fare dopo la morte di una persona cara».

In alcuni casi, per fortuna, c’è il lieto fine. Il 14 luglio Donatella Pagani, sulla pagine Facebook di «Noi denunceremo», ha postato la foto di uno scintillante anello di nozze. E commentato con l’aggiunta di un cuoricino nero, segno di lutto: «Dopo più di tre mesi e mezzo siamo riusciti a riavere la tua fede… è un’emozione grandissima… è come se una parte di te mamma fosse tornata a casa».

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