Mentre gli Stati Uniti preparano il ritiro dei loro soldati, i talebani riprendono campo in tutto il Paese e lo Stato islamico rialza la testa. L’ipotesi di un governo di riconciliazione appare sempre più difficile. Invece il pericolo concreto è una guerra senza fine, in cui resti coinvolto anche il contingente italiano.
Macché pace. Andiamo via perdenti. I talebani hanno vinto e imporranno la loro “pace”. Si rischia che torni tutto come prima» è l’amaro sfogo di un ufficiale che ha combattuto in Afghanistan. «Per i talebani il tempo e il peso del sangue sono irrilevanti. Al contrario di noi occidentali» spiega a Panorama il veterano, che chiede l’anonimato. « La Nato è sempre stata legata a scalette temporali e così abbiamo perso la guerra. Adesso bisognerebbe chiedersi se i nostri caduti hanno avuto un senso».
In Afghanistan gli attacchi aumentano e anche le vittime, con picchi di 350 al mese. Lo Stato islamico rialza la testa con assalti spettacolari e l’amministrazione Usa accelera il ritiro, nonostante l’opposizione dei militari sul campo. In novembre, per le Presidenziali americane, ci saranno solo 5 mila uomini a stelle e strisce nel Paese, il numero più basso di sempre. Tutto nella speranza che lo scambio di prigionieri fra talebani e governo, ormai concluso, porti ai colloqui diretti con gli insorti per negoziare la pace.
Sul terreno, però, i combattenti non hanno dubbi. «Accetteremo solo il 100 per cento del potere» sostiene Yaser, un giovane barbuto nel distretto di Marawara, nell’Est del Paese, dove i talebani hanno fatto entrare il Washington Post. Il suo comandante, Amanullah Arabii, annuisce e sostiene che i colloqui devono portare «alla completa distruzione» del governo di Kabul. I talebani con le bandiere bianche di guerra cantano «morte agli schiavi degli americani e ad Ashraf Ghani», il presidente afghano, che ha appena finito di liberare 5 mila prigionieri. Un punto cruciale dell’accordo fra gli Stati Uniti e gli insorti firmato a Doha il 29 febbraio, ma 153 sono stragisti condannati a morte.
Aziz Tassal, che ha accompagnato l’inviata del Washington Post nel territorio talebano, è presidente del Kabul press club, associazione di 500 giornalisti afghani sparsi in tutto il Paese. Dice: «I talebani pensano di aver vinto. L’opinione diffusa è: “Abbiano sconfitto gli americani, che prima ci hanno attaccato per distruggerci e adesso sono scesi a patti”. Per questo vorrebbero gestire il paese da soli». I fondamentalisti islamici in armi sarebbero fra i 50 e i 100 mila. «Esagerano sulla loro forza militare. E comunque dovranno sedersi attorno a un tavolo per trattare» osserva il giornalista da Kabul. «L’unica soluzione è un governo di riconciliazione nazionale grazie a compromessi da ambo le parti. L’alternativa è la guerra che non finirà mai».
Dall’inizio dell’anno hanno perso la vita 1.282 civili e 2.176 sono i feriti, secondo un rapporto Onu. Fra le vittime si contano 340 bambini. I gruppi armati antigovernativi sono responsabili del 58 per cento dei morti civili, le forze di Kabul del 28 per cento e quelle internazionali del 3 per cento.
«I talebani controllano il 40 per cento del territorio, in gran parte aree rurali. Le città sono in mano governativa, ma le perdite variano fra 250 e 350 uomini al mese» rivela una fonte della Nato di Panorama a Kabul. Dopo la firma dell’accordo di Doha gli attacchi sono aumentati del 70 per cento. A giugno la media era di 50 scontri armati al giorno. Un rapporto del Pentagono di luglio mette in dubbio l’impegno degli insorti a porre fine alle violenze e al distacco dai terroristi di Al Qaida. «Non è possibile fidarsi dei talebani. Il loro vero obiettivo è quello di prendere tempo fino al ritiro delle truppe straniere il prossimo anno» dichiara una fonte governativa afghana, che non è autorizzata a rivelare il proprio nome. «Poi cercheranno di conquistare Kabul come hanno fatto nel 1996 (quando mullah Omar fondò l’Emirato afghano, ndr), ma da allora i tempi sono cambiati. Se la comunità internazionale garantirà l’appoggio aereo e finanziario le nostre forze di sicurezza saranno in grado di tenere la capitale e difendere le città».
Il generale Austin S. Miller, comandante della missione Nato Resolute support, che comprende circa 700 soldati italiani, è in disaccordo con la Casa Bianca sull’abbandonare velocemente l’Afghanistan. E una volta rientrato in patria con le truppe, nel maggio 2021, presenterà le dimissioni. L’Italia segue lo Zio Sam, ma suonano dubbie le parole del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini: «L’annuncio della nuova riduzione di militari degli Stati Uniti è in linea con quanto concordato alla Nato. L’Italia sta progressivamente arrivando a una presenza di 650 uomini».
In realtà l’Alleanza atlantica è stata presa in contropiede. Camp Arena, la nostra base a Herat, dovrà passare agli afghani, ma «un paese come l’Italia non ha le capacità degli Stati Uniti» avverte una fonte militare. «Ci vogliono almeno tre mesi per il ritiro, con un esborso non indifferente. Solo per trovare i voli strategici saranno necessari due mesi. E devi aggiungere i tempi della decisione politica e l’organizzazione. Se poi la violenza aumenta, provocando qualche morto la ritirata rischia di trasformarsi in disfatta».
Sul terreno va inviata una forza ad hoc con potenzialità logistiche. L’11 agosto si è svolto il cambio della guardia fra la 132ma brigata Ariete, che ha passato le consegne agli alpini della Julia comandati dal generale Alberto Vezzoli. Le penne nere resteranno sei mesi, ma non sono adatte a organizzare il ritiro. «Abbiamo partecipato a questa guerra senza entusiasmo, ma la Nato è sopravvissuta al crollo del muro di Berlino grazie a missioni come quella afghana» ammette l’ex generale dei parà, ©, che ha servito in Afghanistan. «L’idea assurda di esportare la democrazia è servita a mantenere in vita l’Alleanza atlantica. Avremmo potuto uscire meglio dall’Afghanistan. I militari hanno guadagnato crediti sul terreno, ma la politica ondivaga non ha saputo sfruttarli al meglio».
A breve dovrebbero partire i dialoghi diretti con i talebani a Doha, capitale del Qatar. A Kabul è stato creato l’Alto Consiglio per la riconciliazione nazionale presieduto dal tagiko Abdullah Abdullah, rivale politico del capo dello Stato e del governo, il pashtun Ghani. I due, dopo le discusse elezioni presidenziali del 2019, hanno trovato un accordo per la spartizione del potere dividendo i ministeri al 50 per cento. E Abdullah, nemico giurato dei talebani, è al vertice del negoziato. I partecipanti ai colloqui stanno per venire definiti, ma dietro le quinte eserciterà forti pressioni Abdul Rashid Dostum, nominato a luglio Maresciallo dell’Afghanistan. Una carica militare che permetterà al leggendario signore della guerra uzbeko, che odia i talebani, di mettere il naso in tutte le delicate questioni di sicurezza. Ghani, apparentemente più accomodante, è considerato dagli insorti un «fantoccio degli americani». Al suo fianco il vicepresidente tagiko, Amrullah Saleh, ex capo dell’Nds, i servizi segreti afghani, è stato a lungo il nemico numero uno dei talebani.
«Le nostre linee rosse sul negoziato sono la democrazia, i diritti umani e delle donne, come l’istruzione» spiega la fonte governativa di Panorama. «Senza accordo politico la Nato non si ritira. Dopo 18 anni neanche a voi occidentali conviene una nuova e più devastante guerra civile in Afghanistan. Significherebbe non solo il riemergere del terrorismo, ma un’ondata di profughi verso l’Europa».
Il capo degli studenti guerrieri, Maulavì Hibatullah Akhunzada, ha reso noto un messaggio conciliatorio che spiega come «i talebani non intendano monopolizzare il potere in un futuro cambiamento politico dell’Afghanistan». Minacciose variabili sono la pandemia e il risorgere dello Stato islamico del Khorasan, come i seguaci del Califfo chiamano l’Afghanistan e una fetta delle ex Repubbliche sovietiche confinanti, che vorrebbero conquistare nel nome della guerra santa. Il ministro della Salute, Ahmad Jawad Osmani, stima che il 31,5 per cento della popolazione, circa 10 milioni di afghani, abbia contratto il Covid-19. Nonostante le secche smentite, il virus avrebbe colpito anche i vertici talebani, compreso il falco dell’ala stragista, Sirajuddin Haqqani.
Il 2 agosto un commando suicida dello Stato islamico ha attaccato il carcere di Jalalabad, dove un terzo dei 1.500 prigionieri sono seguaci del Califfo. La battaglia è durata 20 ore e centinaia di prigionieri jihadisti sono fuggiti tornando a imbracciare le armi.
L’Isis in Afghanistan era dato per spacciato dopo la decapitazione dei vertici. Ma ora sembra risorto e secondo l’Onu conta su 2.200 uomini sparpagliati in cellule clandestine del terrore. Molti talebani disillusi dal piano di pace avrebbero giurato fedeltà al Califfo, che grazie a finanziamenti dall’estero paga ogni miliziano fra 200 e 300 dollari al mese.
«Siamo ottimisti, ma poi sentiamo i talebani che pretendono di mantenere il nome Emirato per l’Afghanistan oltre alla loro bandiera e sorgono i dubbi» sostiene l’imprenditore italo-afghano Ziauddin Saifee. «La gente è stanca della guerra e vuole vederne la fine, ma quale sarà il prezzo da pagare?».
