«L’ambulanza arriva con un paziente colpito da infarto, identificato come non contagiato. È grave e bisogna fare di tutto per salvarlo. Assieme al medico interveniamo subito, ma al primo controllo ci rendiamo conto che ha i segni del virus sui polmoni» racconta a Panorama Giovanni Buttignon, 22 anni. Il giovane infermiere si è laureato il 18 novembre e sei giorni dopo è già in prima linea al Pronto soccorso dell’ospedale di Gorizia. Il 9 dicembre si trova di fronte il paziente positivo pensando che non lo sia. «Il brivido lungo la schiena lo senti subito. Mi sono aggrappato all’idea che ci vogliono 15 minuti per venire infettati. Eravamo ancora in tempo» dice. «Alla velocità della luce ci siamo infilati tute e protezioni per continuare a stabilizzarlo, ma purtroppo il paziente non ce l’ha fatta…».
In tutta Italia un esercito di medici e infermieri è stato catapultato sul fronte della pandemia, come «i ragazzi del ’99» che lo scorso secolo, ancora alle prime armi, finirono in trincea nella Prima guerra mondiale. «Noi giovani del ’98, cent’anni dopo, siamo stati schierati per rimpiazzare le “perdite” del personale sanitario contagiato. Il mio dovere è combattere una guerra diversa, ma altrettanto pericolosa contro un nemico invisibile» sintetizza Buttignon. Ogni volta che deve trattare un infettato «il sudore cola sotto la tuta e all’inizio le mani ti tremano, perché devi fare in fretta e non puoi sbagliare».
Il Triveneto, dove correva la linea del fronte durante il conflitto del ’15-18, è stato colpito duramente dalla seconda ondata della pandemia. Panorama ha seguito questa «meglio gioventù», che non si tira indietro e talvolta rappresenta il 30 per cento del personale nei reparti anti Covid.





«Mio nonno era un ragazzo del ’99 che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale» dice con orgoglio Marco Confalonieri, direttore del reparto di Pneumologia semi-intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste. «Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Ecco, sono i ragazzi del ’99 di questo conflitto».
Valentina Samola, 27 anni e Paolo Ghislieri, 26, sono due medici laureati l’anno scorso. Il reparto sembra un’anticamera dell’inferno: pazienti gravi sotto i caschi per respirare e il sibilo continuo dell’ossigeno che li mantiene in vita. Per entrare bisogna bardarsi come astronauti con tuta bianca, doppi guanti, calzari, mascherina anti-virus e visiera. Valentina si avvicina al capezzale di Tiziana che ricomincia a parlare: «Potrebbero essere i miei figli. Non si tratta solo dell’assistenza sanitaria, ma hanno sempre una parola gentile, di conforto. Dietro le protezioni, appena li vedo li vorrei abbracciare».
La giovane in tuta racconta che «all’inizio è stata una battaglia perché non conoscevamo il Covid-19 e sapevamo poco o nulla sulle dinamiche del virus. Avevamo pochissime terapie da mettere in atto. Poi andando avanti abbiamo capito come combattere e la paura è diminuita». Paolo è fiero di essere su questa linea del fuoco: «Quale momento migliore se non questo per iniziare a fare il medico, in mezzo a una pandemia?». Un contagiato di mezza età, che sembra sparire fra le lenzuola e respira a fatica, sussurra: «A questi giovani medici dovrebbero fare un monumento».
Ai due «ragazzi» non piaceva la retorica degli eroi durante la prima ondata, ma adesso «siamo passati quasi all’opposto nel mondo esterno. È finito il periodo degli applausi e degli striscioni». Si aggirano nel reparto Lazzareto, un grande spazio aperto a pressione negativa per facilitare l’eliminazione del virus, controllando e rincuorando tutti. Valentina si rivolge a una signora che sta migliorando: «Come va? Sono contenta che riesca un po’ a parlare. Ok con la maschera?». Un degente di colore a pancia giù li scongiura: «Ogni tanto venite a controllare se è tutto a posto».
I giovani medici cercano di comunicare con un’altra paziente, che ha il volto coperto dall’apparecchio per l’ossigeno appannato: «Signora Bruna? Non ci sente? Sì, le abbiamo dato un sedativo». Paolo spiega che «molti potrebbero essere nostri nonni. Sono fragili e disarmati di fronte alla malattia. È uno strazio, una sofferenza non avere un contatto fisico con i loro cari, ma li sproniamo a non mollare mai». L’esperienza nell’anticamera dell’inferno è «fortissima e ci ha insegnato tanto sia professionalmente che dal punto di vista umano».
Il coraggio però nulla può contro burocrazia. I medici neolaureati sono ancora inferociti per il blocco delle specializzazioni che c’è stato proprio in questa emergenza. In 14 mila si sono trovati in una situazione di stallo a causa di errori fatti nella domande dell’esame di settembre da parte dei tecnici del ministero dell’Università e Ricerca. La graduatoria per la specializzazione è stata ferma tre mesi a causa di quegli sbagli e dei relativi ricorsi. Il ministro Gaetano Manfredi ha più volte promesso lo sblocco, che è arrivato solo ora con una sentenza del consiglio di Stato. Al ritardo, in ogni caso, ora si sommano le difficoltà logistiche che devono sopportare questi ragazzi per raggiungere il luogo della specializzazione. In pochi giorni, per esempio, dovranno trovarsi un alloggio.
In Veneto, un’altra regione flagellata dalla seconda ondata, Adele Di Costanzo, 27 anni, laureata nel 2019 è stata contagiata in ottobre, ma ha ripreso servizio per combattere il virus. «Sono peggiorata all’improvviso dopo un doppio turno» ci dice. «La mattina ero andata in clinica e avevo un forte mal di testa, ma ho pensato fosse dovuto alla stanchezza. Poi a pranzo mi sono sentita davvero male e mi è venuta la febbre a 38 e mezzo. Ho fatto il tampone e intanto la febbre era già salita a 40. Ho iniziato a avere problemi respiratori con desaturazione e fame d’aria. E così mi hanno ricoverata. Gli stessi sintomi delle persone che avevo curato fino ad allora».
Per fortuna è guarita ed è già tornata a Vicenza con le «Unità speciali continuità assistenziale» (Usca), le piccole squadre mobili che seguono i contagiati a domicilio. «La nostra giornata lavorativa dura 12 ore» racconta Adele. «Si pensi a una battaglia in cui s’impara tutto sul campo. Finora avrò visitato almeno 400 pazienti ». Come gran parte dei giovani medici non ha un contratto, ma combatte il virus come co.co.co – collaborazione coordinata e continuativa – facendosi pagare a fattura. E quando è stata male per il Covid non ha ricevuto alcun tipo d’indennizzo. Nonostante tutte le difficoltà, cosa spinge questi ragazzi a buttarsi nella mischia? «La voglia di dare una mano. Di apprendere. Di rendermi utile» riassume Adele. «E poi con gli ospedali al collasso, come fai a tirarti indietro?».
Ecco che nel reparto Malattie infettive del nosocomio di Padova, Samuele Gardin, 28 anni, sembra un ragazzino dallo sguardo timido, ma ha la vitalità di chi che vuole cambiare il mondo. Ogni mattina arriva alle 7 e 40 e inizia a controllare le schede dei pazienti. Poi monitora, vaglia e sta attento che i contagiati non peggiorino da un momento all’altro. La sera torna a casa alle dieci. Mangia, va a letto, il giorno dopo ricomincia.
Nonostante la risposta dei giovani reclutati per il fronte del virus, a novembre mancavano 53 mila infermieri in tutta Italia. «Facciamo i conti con 30 anni di scarsa lungimiranza» spiega Umberto Lucangelo, direttore del Dipartimento di emergenza a Trieste. «Per gli infermieri che dovrebbero essere uno ogni due pazienti siamo uno a tre. Se non si tornerà a investire con decisione sul personale alla prossima ondata la prima linea verrà travolta».
Francesca Cavaliere, 23 anni, segue con attenzione il corso sull’utilizzo dei caschi per pazienti Covid. Infermiera laureata un anno fa, è alla seconda settimana nel reparto Terapia intensiva. «Con la prima ondata ho contratto il virus in una casa di riposo per anziani» racconta la giovane dai capelli corvini e occhi scuri. «Mi sentivo quasi in colpa, in isolamento a non poter fare nulla rispetto agli altri del mio corso in prima linea». Francesca si prepara minuziosamente nella stanza della vestizione prima di entrare nella zona rossa dell’intensiva. «L’impatto iniziale è stato molto forte. Non ho mai avuto a che fare con pazienti sedati, intubati. Non sapevo dove mettere le mani» ammette. «Ho imparato tutto dai colleghi durante l’emergenza». Dalla retina per i capelli al nastro adesivo per sigillare qualsiasi spiraglio della tuta dove possa infilarsi il virus, Francesca spiega: «Come le mimetiche per i militari, le tute protettive sono la nostra divisa. Ogni giorno lavoro a contatto con il virus, lo faccio e non mi lamento. L’unica nota di amarezza sono gli amici che continuano a organizzare feste come se non ci fosse alcun pericolo».
La meglio gioventù «tappa i buchi» dove c’è bisogno, come al centralino del 118 a Trieste. Francesca Carrozzo, 26 anni compiuti il giorno della laurea, nel luglio scorso, sognava fin dal liceo di fare il medico «per coniugare scienza e umanità». Capelli con la coda e orecchini a forma di Babbo Natale e stelline risponde alle chiamate di emergenza: «C’è tanta isteria. La gente ha paura di essere abbandonata. Ho ricevuto la telefonata di un signore di mezza età appena informato della sua positività. Il padre era morto nella notte per il Covid. Disperato, con febbre e tosse, ma voleva sapere se poteva andare al funerale del papà». Francesca fra poche settimane verrà impiegata nella prima linea della pandemia. Del suo corso, il 70-80 per cento dei partecipanti ha risposto alla chiamate alle armi contro il virus.
Giulia Fumich, 22 anni, è diventata infermiera il 19 novembre anticipando la laurea di una settimana. Cinque giorni dopo ha fatto il primo turno nel reparto di Medicina generale dell’ospedale di Cattinara, nel capoluogo giuliano. «Non sono preoccupata per me, ma ho paura di portare il virus a casa, se venissi contagiata. Vivo con i miei genitori e uno dei nonni è immunodepresso» dice la ragazza dagli occhi azzurri. Il reparto è chiuso alle visite, ma non manca un grande presepe per non dimenticare che comunque è Natale. Francesca, camice verde e mascherina, non ha dubbi: «È giusto che i ragazzi classe ’98 come me vengano arruolati negli ospedali. Siamo giovani e abbiamo appena cominciato, se non affrontiamo noi la pandemia, chi lo deve fare?».