In Italia diventano sempre più gravosi i costi di produzione in tutto il settore alimentare. La Grande distribuzione, però, non intende adeguare i listini e così i produttori sono costretti a lavorare (e vendere) in perdita. Una situazione fuori controllo che scaricherà i suoi effetti sui consumatori.
Ci chiederemo tra qualche settimana: «mela» compro? Non è un refuso: è un’unica parola. Perché il campo piange e il piatto pure; i prezzi stanno andando fuori controllo. Si combatte una guerra sotterranea tra la Grande distribuzione e i produttori ortofrutticoli, ma non solo loro: dalla pasta alla carne, passando per caffè e latte la lista della spesa è un termometro fuori scala, ma a chi produce si chiede di rimetterci. Antonio Divella – grande industriale degli spaghetti – stima nel 38 per cento il rincaro della pasta, il pane è già raddoppiato, un espresso è a 1,5 euro, l’insostituibile cappuccino e cornetto viaggia stabilmente sopra i 4 euro. Per dirla col Maggio francese ce n’est que un début, continuon à la hausse («è solo l’inizio, continuiamo con i rialzi»). Ma c’è anche la sindrome Amazon: a guadagnarci deve essere solo chi distribuisce. Se Jeff Bezos ha incrementato il suo patrimonio di 82 miliardi di dollari durante la pandemia (fonte Oxfam) perché non seguire l’esempio? Gli ipermercati non ne vogliono sapere di ritoccare i cartellini perché temono la fuga dei clienti, i produttori non ci stanno dentro con i costi e minacciano di non fare la raccolta. Per loro è aumentato tutto, dai trasporti agli imballaggi, aggravati dalla botta presa con l’addio alla plastica: altra scelta dell’Europa ambientalmente ineccepibile, economicamente disastrosa soprattutto per le aziende italiane.
Risultato: la Gdo, se può, compra all’estero. La qualità neppure a paragonarla, ma si punta tutto sul prezzo. Perché al di là degli entusiasmi per la ripresa miracolosa, che non si è tradotta né in aumento di reddito né di lavoro sicuro, il cavallo consumatore è spaventato e non beve. La Confesercenti ha calcolato che due anni di pandemia hanno fatto fuori 3.900 euro di consumi a famiglia e solo a dicembre mancano 6 miliardi di acquisti; la Confcommercio ha stimato una ripresa dei consumi del 5,1 per cento su base annua, ma avverte che non torneremo a livelli pre-pandemici se non nel 2023, e che ristoratori e alberghi hanno perso 60 miliardi di euro. A occhio ci siamo già giocati nel turismo 65 mila aziende, nel commercio 25 mila e, nei servizi culturali e dello spettacolo, non meno di 15 mila.
Circa 300 mila aziende agricole, il 20 per cento, stanno chiudendo causa blocco dei ristoranti e dei consumi ridotti per Covid. Lo spettro della stagflazione (prezzi su consumi giù) alita sull’economia, ma guai a evocarlo. I guru dei soldi in Europa di inflazione strutturale non ne vogliono parlare: a cominciare da Christine Lagarde, presidente della Bce, decisa a non toccare i tassi – il continente nel complesso si è molto indebitato e l’Italia esageratamente per sopportare uno shock sul costo degli interessi. La guida dell’istituto centrale è disposta anche a credere che a innalzare i listini sia il lievito madre e non l’eccesso di moneta, la strozzatura logistica, la mancanza di materia prima e i calcoli sbagliati sulla transizione ecologica. Eppure la Bundesbank, per scienza e coscienza del capo economista Eric Heymann, glielo ha scritto chiaro: «Attorno al Green deal c’è un dibattito non onesto; tutti sanno che provocherà una grande crisi con una perdita di posti di lavoro e benessere, e per imporlo servirà un’eco-dittatura». Perciò hanno spiegato che l’inflazione è una fiammata passeggera, compresa la corsa delle bollette che atterrisce le famiglie e chiude le imprese.
La colpa semmai è tutta delle energie fossili, peraltro in prepensionamento, che si ostinano a salire anche perché quel cattivone di Vladimir Putin usa i rubinetti del gas come arma di ricatto. Nessuno dice che i costi energetici sono esplosi per effetto del Green deal. Anche e di più in campagna, perché l’Europa di Ursula von der Leyen avrebbe una gran voglia di convertire le terre destinate a pane in zolle che producono bioenergia, così anche Greta Thunberg è contenta. Tanto per mangiare ci sono i nuovi cibi sdoganati dalla Commissione: le larve gialle, il latte di scarafaggi – è una spremuta di blatte ed è uno dei novel food – il beverone di fagioli e l’entrecôte di coccodrillo, ma del Nilo s’intende. Anche l’allarme (tardivo, esagerato e facilitato dall’«ecologically correct») per la peste suina passa in sottordine: basta un prosciutto di coccodrillo e… vuoi mettere? Costa tre volte il Pata Negra (60 euro il maiale ispanico, 160 euro il Nilotico), ma non stiamo a guardare l’inflazione alimentare. È passeggera.
Sicuri? Nessuno ci fa caso, stiamo però per entrare nell’era del cinghiale sottobanco (prima o poi dovranno essere abbattuti se si vuole contenere la peste suina, che per l’Italia significa danni a un settore da 8 miliardi di cui 1,7 dall’estero) pur di levarsi la fame. Basta leggere il consuntivo sul rialzo dei prezzi di dicembre stilato dall’Istat che ha fotografato l’inflazione al +3,9 per cento notando: «L’ulteriore accelerazione su base tendenziale è dovuta prevalentemente ai prezzi dei beni alimentari sia lavorati (da +1,4 di novembre a +2 per cento) sia non lavorati (da +1,5 a +3,6 per cento)». Le ragioni dei rincari sono sia interne che esterne: vanno dalla Cina che ha aumentato a dismisura le sue scorte al fatto che per troppo tempo il rendimento delle commodity agricole (beni di base) è stato disallineato al ribasso rispetto alle rendite finanziarie.
Su questo punto la Fao, l’organizzazione internazionale di cui è vicedirettore l’ex ministro agricolo Maurizio Martina, è stata puntuale: c’è un fortissimo incremento sui prodotti lattiero-caseari e sui cereali, nonostante un significativo aumento di produzione , e sullo zucchero; crollano invece i vegetali. Perché? Perché le prime sono commodity stoccabili e ad alto valore calorico. E su queste si è lanciata la finanza. Il bollettino Fao dice che a novembre l’indice dei prezzi «ha registrato in media 134,4 punti, raggiungendo il record dal giugno 2011, dopo un aumento dell’1,2 per cento rispetto a ottobre. In confronto al valore di novembre 2020 l’indice più alto del 27,3 per cento».
Così il made in Italy agroalimentare fa fatica. «Lo ammetto» sostiene Ivano Vacondio, presidente di Federalimenatre 6.500 imprese, 150 miliardi di euro di fatturato di cui 50 dall’export, «siamo in un momento in cui se non si riescono a scaricare sui listini gli extracosti finiamo per perdere gran parte delle nostre industrie. Le ragioni sono molteplici, dall’energia alla speculazione internazionale, e lo so bene io che produco farne col grano quasi triplicato in un anno; ma c’entra molto anche l’Europa con una politica agricola e agroalimentare incoerente. Ho il sospetto che ci sia un attacco delle multinazionali alle nostre quote di marcato indirettamente favorito da Bruxelles. Non vogliono riconoscerci gli aumenti perché ci stanno facendo dumping».
Sulla stessa linea Luigi Scordamaglia – consigliere delegato di Filiera Italia – che lamenta «la compressione dei margini di chi produce in campagna e di chi trasforma rischia di far saltare il sistema delle filiere, il vero valore aggiunto del made in Italy agroalimentare. Su carne e latte abbiamo aumenti di costo inspiegabili, ma i prezzi finali restano fermi». Siamo tornati al «mela» compro. «E io non so se “mela” vendo» fa eco Marco Salvi, presidente di Fruitimprese, 300 aziende associate 6 miliardi di euro di fatturato di cui 2 dall’export. «Siamo un settore dove i margini sono risicati: 10 centesimi al chilo vogliono dire successo o fallimento. Stiamo fronteggiando incrementi di costi del 20 per cento – dai carburanti ai concimi – aggravati ulteriormente dagli aumenti degli imballaggi che spesso costano più del prodotto stesso. I rincari dei noli delle navi, per dirne una, stanno obbligando compagnie storiche dell’esportazione a rinunciare ai mercati d’oltremare perché non più remunerativi. Abbiamo deciso tutti insieme di parlare direttamente ai consumatori per spiegare come stanno le cose. In una fase inflattiva come quella attuale, peraltro prevedibile, l’onere non può ricadere esclusivamente o in larga parte sugli anelli più a monte della filiera dell’ortofrutta fresca. La frutta e la verdura» conclude Salvi «sono un bene primario per le famiglie e ne va garantita la fornitura al giusto prezzo per tutti, altrimenti qualità e salubrità dei prodotti sono messe in pericolo». Altro che levare il medico di torno, una mela al giorno torna a essere il pomo della discordia. Che, guarda caso, era d’oro.
