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Crac d’Africa

Crac d’Africa

Sono sempre più numerosi i Paesi di questo continente strangolati da un debito pubblico che li costringe a ridurre servizi e svendere le risorse. E Cina e Russia ne approfittano.


Giovani che sventolano bandiere della Cina, folle in rivolta che inneggiano alla Russia, governi che snobbano l’Occidente e appaltano opere pubbliche soltanto ad aziende di Pechino e, in misura minore, di Mosca. È ciò che avviene attualmente in Africa, in quasi tutti i 54 Paesi del continente, dov’è in corso una vera rimozione culturale e soprattutto economica dell’«uomo bianco» europeo. Un rigetto favorito dalla condizione di «failed State», di Stati falliti, in cui versano numerosi di essi, e dalle allettanti proposte che anzitutto Pechino propone loro nel sostituirsi ai «vecchi padroni».

La Cina, com’è noto, è da tempo un attore chiave sulla scena africana sia come investitore sia come creditore, e in media detiene circa 170 miliardi di dollari di debiti (sebbene questo valore sia probabilmente sottostimato). Il suo status di «creditore maggioritario» nei confronti di diversi governi varia notevolmente, con Pechino che vanta una posizione dominante apparentemente solo in sei: Angola, Camerun, Repubblica del Congo, Gibuti, Etiopia e Zambia. Abbastanza però per essere un dominus continentale, considerate anche le numerose «trappole del debito» disseminate ad arte dal Dragone nei vari contratti e appalti «in esclusiva».

Il metodo cinese di penetrazione economica è piuttosto semplice: «Pechino si sostituisce allo Stato laddove quest’ultimo non può più provvedere a servizi essenziali come le infrastrutture, di fatto appropriandosene e però anche infischiandosene di investire in programmi di sviluppo economico e sociale» afferma il giornalista esperto d’Africa Rocco Bellantone. «Il che non fa che aumentare i livelli di povertà generali, diminuendo l’aspettativa di vita dei cittadini e la loro capacità di scalata sociale, legando la politica e i destini di una nazione indissolubilmente a creditori lontani e disinteressati al benessere di quel determinato Paese».

In ragione delle scarse finanze disponibili, i governi africani hanno infatti progressivamente «tagliato la loro già esigua spesa per sanità, istruzione e investimenti pubblici per pagare i propri creditori esterni, minando le prospettive di futuro per le prossime generazioni. E ancora adesso, per evitare il default del debito, i ministri delle finanze dei vari Stati sono costretti a non investire, ma soltanto a ripagare come possono. Il che li rende non meno schiavi di un tempo, non meno colonie che in passato» riflette Bellantone. Ha sintetizzato alla perfezione questo concetto il principale consigliere economico del presidente del Kenya. Questo il suo tweet: «Stipendi o default? Fa’ la tua scelta».

Già, perché i Paesi africani sono purtroppo ancora «in via di sviluppo», dipendenti dagli aiuti esteri e afflitti da carenze endemiche e problemi strutturali, che ne minano la stabilità e di conseguenza peggiorano le prospettive macroeconomiche dell’intero continente. Soprattutto quando si osserva il rapporto debito/Pil, un indicatore molto affidabile della capacità di uno Stato di ripagare i propri debiti (in pratica, maggiore è il rapporto debito/Pil, minore è la probabilità che quel determinato Paese ripaghi il proprio debito e si renda insolvente).

Secondo i parametri della Banca Mondiale, le Nazioni i cui rapporti debito/Pil superano il 77 per cento per periodi prolungati sperimentano significativi rallentamenti della crescita economica. Soprattutto, la Banca mondiale considera insostenibili rapporti debito/Pil superiori al 64 per cento per i Paesi in via di sviluppo. Che è proprio ciò che sta avvenendo in Africa, dove alla fine del 2021 Angola, Gibuti, Mozambico, Ruanda, Sudan, Tunisia e Zambia, Capo Verde, Mauritius e Seychelles avevano livelli di debito estero oltre il 75 per cento del proprio Pil. Con lo Zambia che a fine 2022 ha sfondato addirittura il 130 per cento del debito, aggiudicandosi il record del continente nero.

Complessivamente, l’onere del debito pubblico africano è raddoppiato dal 2010 a oggi. I dati e le statistiche a dicembre 2022 mostrano che, messi insieme, gli Stati africani sono insolventi per una cifra stellare: 644.855 miliardi di dollari. Come potranno mai ripagare una simile somma? E, soprattutto, verso chi si sono esposti? La risposta è anzitutto in quelle bandiere cinesi e russe così accanitamente sventolate dai sostenitori de facto dei loro «nuovi padroni». Ma anche nella molteplicità e nella diversità di tutti gli altri creditori, cosa che rende difficilissimo affrontare qualsivoglia ristrutturazione del debito.

Coordinare creditori differenti e con interessi divergenti, cooperando allo stesso tempo con società di rating e con il Fondo monetario internazionale non è impresa facile: chi sarebbe disposto a ristrutturare un debito che servirà gli interessi di creditori concorrenti? Qui sta la vera sfida geo-economica. La Banca mondiale ha stimato che ben 49 Paesi africani (quasi tutti, dunque) devono il 39 per cento del loro debito a istituzioni multilaterali e il 35 per cento a creditori privati. Ma soprattutto, il continente deve tra il 12 e il 17 per cento del suo passivo direttamente alla Repubblica popolare di Cina e ai suoi istituti di credito (i privati sono conteggiati come afferenti o comunque connessi allo Stato). Una percentuale destinata a salire, considerato che negli ultimi tre anni i prestatori privati hanno addebitato tassi di interesse del 5 per cento alle nazioni africane, mentre la Cina e i prestatori multilaterali hanno addebitato rispettivamente il 2,7 e l’1,3 per cento.

Così, oggi, sono 12 i Paesi che stanno consumando una sempre maggiore quantità di entrate fiscali, necessarie per tenere aperte le scuole, fornire elettricità e pagare per cibo e carburante, per saldare il proprio debito con la Cina. Il che sta prosciugando le riserve di valuta estera che questi Stati usano per pagare gli interessi su quei prestiti, lasciando ad alcuni solo pochi mesi prima che i soldi finiscano. In tal modo, Pechino tiene in pugno i governi già di per sé instabili dell’Africa.

Vi sarebbero anche eccezioni a questa spirale debitoria del continente, ma la situazione non appare mai virtuosa: l’Egitto, con un Pil pari a 1,39 trilioni di dollari; e la Nigeria, con un Pil di 1,15 trilioni di dollari. Lo scorso anno il rapporto debito/Pil del Cairo è infatti salito all’88,5 per cento e si prevede che aumenterà ulteriormente nel 2023. Mentre quello della Nigeria – salito costantemente a partire dal 2014 – nel 2022 si è attestato poco sopra il 38 per cento, con gli analisti che stimano per quest’anno una cifra intorno al 40 per cento.

Il che non è affatto rassicurante, specie se si tiene conto che i costi del servizio di tale debito (ovvero interesse e costo del denaro relativi) sono saliti all’80 per cento nel 2022 a sono andati oltre il 100 per cento delle entrate del governo quest’anno, ossia ben al di sopra del 22,5 invece previsto dalla Banca mondiale.

Nonostante la Nigeria non sia mai stata inadempiente rispetto al pagamento delle passività, gli esperti hanno avvertito che potrebbe conoscere una crisi catastrofica simile a quella del Ghana, che è andato in default nel 2022, proprio dopo che interessi e more erano ormai arrivati a consumare tra il 70 e il 100 delle entrate pubbliche.

Facile anche per la Russia inserirsi in questa lenta sostituzione dell’Occidente in Africa: Vladimir Putin, potendosi permettere a piacimento di fornire o meno grano ai Paesi più vulnerabili del continente, contribuisce a decidere i destini di chi dipende in tutto e per tutto dagli aiuti: a dimostrarlo ci sono 50 mila tonnellate di cereali destinate a Burkina Faso, Zimbabwe, Mali, Somalia, Eritrea e Repubblica Centrafricana, che nei prossimi tre o quattro mesi potrebbero sfamare milioni di persone. A patto, però, che ciascuna di queste nazioni continui a sventolare la bandiera di Mosca e che voti per il suo candidato.

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