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David Debrin: «Venite a specchiarvi nei miei mondi»

David Debrin: «Venite 
a specchiarvi nei miei mondi»

Seduttivo, cinematografico, inquieto. Il fotografo canadese, maestro dell’immagine, ha appena firmato un nuovo libro di scatti che sembrano film. Dove la donna è protagonista assoluta e si muove in una realtà che diventa sogno. E viceversa.


Una donna è seduta in bilico su un recinto basso che delimita una pista d’atterraggio. Ha i piedi scalzi, una coscia in vista che spunta da un vestito bianco, lieve come il drappeggio di una scultura di Canova. Guarda in alto, si fa ombra con una mano sul viso, tenta di proteggersi dal vento possente che le agita i capelli. Sopra di lei, a una distanza ravvicinata, scende un aereo che è in procinto di toccare il suolo. È un contrasto visivo, contiene la seduzione istintiva di una situazione ad alto rischio. Non è un quadro, ma una scena cercata, voluta, realmente accaduta.

Flirting with danger (teNeues), amoreggiando con il pericolo, è il titolo dell’ultima collezione di scatti di David Drebin, uno dei più quotati fotografi contemporanei. Ha esposto in tutto il mondo e partecipato a oltre 100 fiere internazionali a cominciare da Art Basel di Miami (per quasi 20 volte), mentre i suoi lavori sono regolarmente acquistati da collezionisti e celebrità. Tra i suoi fan, giusto per citarne uno, c’è la popstar Elton John.

Il suo nuovo volume è dedicato al fascino dell’incerto: «Racconto storie che non finiscono. È lo spettatore che è chiamato a completarle nella sua testa» spiega Drebin a Panorama da New York, dove vive e ha studiato alla blasonata Parsons School of Design. Originario di Toronto, si dimostra divertente e amichevole sin dai primi minuti di conversazione. Parla tra lunghe pause finché non diventa serissimo, al limite dello spigoloso, specie quando vuole sottolineare un concetto essenziale: «Mi sento come se fossi un regista» dice a un tratto.

In effetti, i suoi lavori sono cinematici, dinamici, contengono la tensione di un movimento: «Il pubblico non cerca mai l’ovvio. Vuole indovinare quanto è successo e sta per accadere, sente il bisogno di pensare. È come vivere una relazione, ma con una foto: in una storia d’amore ognuno compete con l’immaginazione del partner, con tutto ciò che l’altro crede potrà o non potrà succedere».

Ecco allora la figura dai lunghi guanti neri che si sporge da un balcone impugnando a sua volta una macchina fotografica, ecco quella con le ali d’angelo che attraversa un campo sperduto, mentre i grattacieli della California luccicano sullo sfondo. Le protagoniste degli scatti di Drebin sono spesso donne bellissime, femme fatale, per rinforzare uno stereotipo che però funziona: «Trovo le donne irresistibili, non per il loro aspetto. Lo sono per il loro cervello. È la stessa essenza delle mie immagini: voglio siano mentalmente allettanti». E sono ammalianti, come le curve di tanti corpi nudi, come nello scatto di un palazzo parigino ripreso dall’alto, con le finestre tutte buie e l’unica aperta, accesa da una luce rossa, dalla sensualità di una gamba, un piede, un tacco a spillo. È voyeurismo puro, sebbene a Drebin la definizione non piaccia: per lui, ogni frammento è un racconto messo in pausa.

Nonostante l’accostamento ritorni con frequenza, l’artista non ama nemmeno essere paragonato a un altro pilastro dell’ellissi, Helmut Newton: «Voglio essere uguale soltanto a me stesso» ripete. E pare esserci riuscito, visto che le sue opere presentano una cifra stilistica ben precisa, si sono guadagnate la capacità di fare categoria. Sono chiamate, semplicemente, «Drebins»: «Non ho l’ambizione di piacere a tutti, mi piace essere riconosciuto. Puoi amare i Rolling Stones oppure no, però sei in grado di capire quando un pezzo è suonato da loro. Se vedi un mio lavoro, avrai sempre degli elementi che ti diranno che è mio».

Su un punto concorda: dei suoi soggetti non mostra quasi mai gli occhi. Sono nascosti dalle pagine di un giornale, dalle gocce di pioggia che si moltiplicano su un vetro, da un mucchio di dollari, dentro nuvole di fumo. «Meno qualcuno è riconoscibile in una fotografia, più aumenta la curiosità. Meno si mostra, più la gente vuole vedere».

Nel volume, vari scatti sono ambientati in Italia, tra Roma e la Toscana: «Torno ogni anno nel vostro Paese, sono innamorato della sua energia. Il più grande complimento che qualcuno possa farmi è chiedermi se sono italiano».

Drebin ha smesso invece di ritrarre vip, attori e imprenditori, sebbene in passato per lui abbiano posato Steve Jobs, Bradley Cooper, Charlize Theron o Emily Blunt. A loro è dedicato un altro dei suoi libri, Before they were famous (sempre pubblicato da teNeues), prima che fossero famosi. Prima che perdessero, parole sue, la loro innocenza: «Le celebrità impressionano gli altri, non me. Sono amati per il loro lavoro, la loro fama, non per ciò che sono. È il carattere autentico delle persone a colpirmi. Bramo scoprirne i segreti: tutto quello che m’interessa sapere è ciò che non vogliono dirmi».

Più che un regista prestato alla fotografia, David Drebin è uno psicologo. La sua lente diventa un occhiale attraverso il quale scrutare sé stessi: «Nei miei scatti ognuno può vedere qualcosa di diverso, di personale e autonomo. Le mie immagini sono mondi dentro i quali specchiarsi. L’arte non è altro che un riflesso».

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