Da sempre considerato un alimento nobile destinato a un pubblico «alto spendente», quest’anno raggiunge quotazioni stellari: fino a 6.500 euro al chilo. Il motivo? Siccità e, quindi, scarsa disponibilità. Viaggio nella storia gastronomica di questo tubero dal tempo dei Romani a oggi. Con curiosità, luoghi di culto e fiere cui partecipare in Italia. Per regalarsi una fuga sensoriale che gratifichi olfatto e gusto.
Dicono che ci sia la zampino di Greta Thunberg se lo zappetto quest’anno resta inattivo e il Tuber magnatum pico, il terzo alimento più caro del mondo (gli altri due sono caviali selvaggi iraniani, praticamente introvabili), gioca a nascondino tra le radici dei pioppi e delle querce e non si fa trovare. Scherzi a parte, l’estate siccitosa ha inaridito le raccolte: di tartufo bianco ce n’è poco e costa una cifra folle con aumenti che sfiorano il 50 per cento rispetto allo scorso anno. Le ultime quotazioni per «pezzi» che stanno al di sopra dell’etto di peso si aggirano sui 6 mila-6.500 euro al chilo. Per quelli più piccoli si spende un po’ meno: una «pallina» da 30 grammi per farsi una tagliatella con gli amici o una scorpacciata di uova al tegamino viene via con 120/150 euro, secondo il grado di pulizia dal terriccio. Perché il tartufo che dovrebbe essere ben nettato, anche se non perde tutta la terra si paga comunque lordo.
I tuberi di maggior calibro prendono tutti la via dell’esportazione, per la disperazione di cuochi nostrani che della cucina con il tartufo hanno fatto un must internazionale, insegnando al mondo come si esaltano questi doni del bosco.
Il primo a far diventare una moda gastronomica del jet set il Magnatum pico (quello bianco) fu Gioacchino Rossini sfidando il re dei cuochi della sua epoca Marie-Antoine Carême che prediligeva i tartufi neri provenienti da Acqualagna, località a un passo da Pesaro patria del compositore del Barbiere di Siviglia, assai abile anche con la stoviglia. Ma il francese non vinse la sfida: oltralpe, infatti, i tartufi sono spesso sottoposti a cotture con temperature che rovinano la purezza dell’aroma.
Due le ricette di Rossini che misero knock out Carême: l’insalata alla Rossini dove il bianco trionfa e i tournedos. Si dice che si chiamino così non solo perché il filetto viene rigirato, ma perché i camerieri indignati per l’ardire di Rossini nello sfidare Carême abbiano voltato la schiena nel momento di servire il piatto. Da allora il tartufo bianco, che nella sua millenaria storia ha avuto alti e bassi, è diventato un oggetto del desiderio gastronomico. Lo amavano già i Romani, Apicio né dà dovizia di ricette e anche per i Cesari era una pietanza da ostentare. Nel Medioevo cadde in disgrazia, lo si riteneva nato dal diavolo (del resto allora l’aristocrazia mangiava solo cose che stavano «in alto» e il tartufo nasce sottoterra, si credeva fosse generato dal fulmine) e peccaminoso perché induceva l’ardore nel sesso.
Era roba da plebei e da maiali (i migliori animali da cerca ma oggi proibiti perché la scrofa riconosce nell’odore del Magnatum i feromoni del maschio), ma nel Rinascimento torna in auge. Oggi la tendenza è farne una sorta di simbolo della ricchezza, anche se i veri buongustai lo usano con misurata adorazione e i nostri migliori cuochi lo trattano con deferenza senza farne né vanto né spreco.
Non è però solo una questione riservata ai buongustai: è economia e anche pesante. Si stima che solo l’attività di cerca – in Italia sono almeno 24 mila i cavatori – valga circa 600 milioni, cui vanno aggiunti i fatturati di alcuni grandi gruppi (il maggiore è Urbani in Umbria noto in tutto il mondo) che valgono, messi insieme, altri 330 milioni. Poi c’è il turismo e il conto dei ristoranti. Insomma, attorno ai tartufi girano affari – talvolta in nero come il più pregiato dei funghi ipogei invernali la cui stagione comincia proprio questa settimana – per un miliardo e mezzo.
fiera tartufo alba
Ma il gioco d’andar per boschi vale la candela. Anche perché – e questa è prerogativa dei cercatori albesi – a tartufi ci si va di notte. Per evitare che altri scoprano il posto buono? Di certo, ma lo vendono come un rito per ingraziarsi le ninfe dei boschi. Sul tartufo esiste una ben definita retorica, e ad Alba – un tempo Langa esangue – sulla trifola hanno creato un fortissimo brand territoriale. La loro Fiera interazionale , che è giunta alle 91 edizioni e va avanti fino al 5 dicembre, è il mercato di riferimento, fa immagine e prezzo nel mondo.
Alba è però solo una della capitali del Magnatum pico. A contenderle lo scettro c’è sicuramente Acqualagna – la cui fiera prosegue fino al 14 novembre – in provincia di Pesaro Urbino. Una curiosità: Acqualagna è l’unico Comune ad avere un assessore al tartufo anche perché qui questi frutti della terra si raccolgono tutto l’anno.
Dopo il bianco viene il nero pregiato – ha la sua massima espressione in Val Nerina tra Visso e Norcia – e poi lo scorzone e il marzolo bianchetto, e ancora il nero estivo e di nuovo il bianco in una sorta di circolarità di profumi. Altra città che si vanta di avere i bianchi migliori del mondo e ancora detiene il record mondiale del Magnatum più grande mai trovato (sfiorava i tre chili) è San Miniato, in provincia di Pisa, dove la trifola viene celebrata fino al 28 novembre nella Sagra più «ricca» che ci sia. Rimanendo sempre in Toscana, a San Giovanni d’Asso, nelle crete senesi, c’è addirittura il museo del tartufo con tanto di olfattorio.
La terra promessa del bianco è il Molise, dove si raccoglie la maggior quantità di Magnatum pico. Per decenni hanno venduto all’ingrosso i loro «diamanti del bosco», ma ora ne hanno fatto un motore di sviluppo. Questo vale per tutta Italia. Basta andare su portale dell’associazione Città del Tartufo (Cittadeltartufo.com): da Palaia ad Amadola, da Gubbio a Sant’Angelo in Vado, da Città di Castello a Camugnano, da Vezzo a Savignano a Pergola sono oltre 100 gli appuntamenti per celebrare queste pepite di voluttà gastronomica.
Che si trasformano in capolavori se a officiarli sono cuochi come Enrico Crippa, tre stelle Michelin con il suo Piazza Duomo, ovviamente ad Alba. Eppure anche lui di fronte al tartufo sceglie la semplicità. Sono un mito i suoi tagliolini al bianco, la sua battuta di fassona alla trifola. La ricetta preferita? Uovo all’occhio di bue su crema di patate al burro nocciola e una pioggia di bianco: costa appunto un occhio, ma è l’anticamera del paradiso.
Che avesse ragione Dante? Per arrivarci bisogna passare da sottoterra!
