Il volto di Ema Stokholma è diventato familiare perché ha condotto il PrimaFestival a Sanremo. Ora è uscita l’autobiografia sull’infanzia e la paura di quella che lei chiama «mostro»: sua mamma. Che tutti i giorni la umiliava e la picchiava.
Ha un giubbotto bomber vinaccia molto anni Ottanta, ma lei in quel periodo era appena nata e si chiamava Morwenn Moguerou. Oggi è Ema Stokholma, bellissima, tatuata dj e conduttrice radiofonica. Reduce dal successo di Sanremo dove ha condotto il PrimaFestival, ha appena pubblicato per HarperCollins Per il mio bene. Autobiografia di un’infanzia violenta. Secco, diretto, senza fronzoli né vittimismo, è la sua storia, del fratello e del «mostro»: la madre. «Ho scritto perché quando vediamo un bambino con un livido dobbiamo iniziare a farci delle domande. E pochi se le fanno. L’anno scorso, dopo aver seguito la vicenda di Giuseppe, 7 anni, morto per le botte del patrigno, ho cominciato il libro. Non può succedere. Ma la gente non ascolta. Anche chi mi ha conosciuto bene, dopo aver letto, mi ha detto: “Scusami, non avevo capito”. Certe cose si fa fatica ad ascoltarle».
Si fa fatica anche a leggerle: la violenza, gli insulti, sua madre che le infila la testa nel water, la chiama ninfomane a quattro anni.
Più che il dolore fisico, che poi passava, erano le cose che mi diceva a farmi male. «Sei brutta, non meriti amore». Avevo solo quattro anni e urlava: «Sei una troia, una bocchinara».
È vero che soffriva così tanto che pregava Dio perché facesse morire sua madre?
Ero piccola, avevo sei anni, mi picchiava tutti i giorni. Non c’era mai un motivo. Con mio fratello ci muovevano in casa con circospezione. Non sapevamo mai cosa potesse accadere. Succedeva che, nel cuore della notte, arrivasse mentre dormivo per trascinarmi in bagno sotto l’acqua gelata.
Che cosa aveva scatenato tutta questa violenza?
Non l’ho mai capito. La solitudine estrema, la sofferenza, le difficoltà economiche, il non avere alle spalle una famiglia, anche lei era scappata di casa per colpa di un padre violento. Il dolore può fare impazzire.
Ha mai visto sua madre felice?
Quando è nato mio fratello Gwendal era molto innamorata di mio padre. Vivevano come figli dei fiori in una casa in Bretagna. Tre anni dopo il sogno si è rotto. Lui l’ha abbandonata. Ho cercato di mettermi nei suoi panni. A vent’anni sola, incinta e con un bambino piccolo, senza soldi. È troppo facile dire: «che madre di merda». La sofferenza fa fare cose atroci. Non giustifica, ma aiuta a capire. Mia madre aveva bisogno di cure, ma nessuno si è fatto avanti per aiutarci.
Lei l’ha perdonata?
Non posso perdonare la cattiveria gratuita, le umiliazioni, i vuoti che mi ha lasciato. Ha distrutto ogni briciolo di fiducia che potevo avere in me o nel prossimo. E poi non sono cattolica. Non penso che il perdono sia obbligatorio. Lei non ci ha mai chiesto scusa.
Era sempre colpa nostra.
Che colpe avevate?
Forse di assomigliare troppo a nostro padre, l’uomo che l’aveva abbandonata.
Con suo padre che rapporto ha avuto?
Lui non c’è mai stato. E non ha capito quanto fosse schifosa la nostra vita. Quando sono arrivata a Roma, dopo essere scappata di casa a 15 anni, non siamo più riusciti a costruire un rapporto.
Suo fratello ha subìto la stessa violenza?
Ognuno soffriva per conto proprio. Lei faceva di tutto per dividerci. E ci riusciva. Poi quando se la prendeva con lui, io tiravo un sospiro di sollievo. Se toccava a Gwendal, lasciava in pace me. È un pensiero cattivo, ti senti una merda. Su questo senso di colpa ho dovuto lavorarci per anni.
Quella violenza le è rimasta attaccata addosso?
Ero manesca con i miei fidanzati. Eppure non volevo essere un mostro, come lei che conosceva solo quel modo di comunicare. Sono andata in analisi e mi ha aiutato.
Qual è stata la parte più dolorosa da scrivere?
Mi ha fatto male ripensare al funerale. È il suo ricordo più recente. È stato tre anni fa, d’estate.
Racconta che dopo la sua morte, ascoltando Freedom di George Michael per la prima volta ha provato empatia.
Era finita un’era. Mia madre non mi era mai mancata, ma in quel momento si era aperto un vuoto. Quella sera fu un’inarrestabile valle di lacrime. Pensai che anche lei amava la musica, aveva avuto dei sogni, creduto nell’amore, ma non ce l’aveva fatta. La vita non era andata come avrebbe voluto.
C’è un romanzo di Peter Cameron dal titolo Un giorno questo dolore ti sarà utile. Per lei è stato così?
Alla fine ho realizzato tutto quello che lei era convinta non avrei mai potuto fare. Mi diceva che avevo una brutta voce e ho fatto la dj, che ero orrenda e sono una modella, bruciava i miei disegni e ora dipingo. Eppure non cambierei nulla della mia vita, neanche quella parte lì.
