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Gourmet con la G di Green

Gourmet con la G di Green

La rivoluzione vegana e vegetariana è arrivata anche nei menu degli chef stellati. Cortecce, foglie, rape, radici e spezie sono i nuovi ingredienti. I risultati? Sorprendenti e buoni.


Si è fatto riprendere inginocchiato tra le zolle in giacca di rustico tweed e ha postato l’immagine ai suoi 500 mila follower spiegando che voleva «ridefinire il lusso come un’esperienza al servizio di una missione più alta e in contatto con la comunità». Così Daniel Humm, patron di Eleven Madison Park, il ristorante più celebrato di New York, carico di stelle, ha annunciato la rivoluzione vegana della sua cucina, maturata durante i 15 mesi di chiusura Covid. Addio alla famosa anatra dry-aged glassata al miele presentata con il derrière ornato di rametti di lavanda acconciati da un gioielliere, addio alla spalla di maialino confit e ad altre delizie. Adesso è il momento della «rapa cotta in 18 modi», della «tartara di cetrioli tritati, limone e daikon», del «tonburi – finto caviale derivato dai semi di una conifera – in foglia di lattuga».

Problemi? L’unico per ora è trovare posto dato che la «waiting list» dei desiderosi di pagare i 335 dollari a testa del menu è a quota 50 mila. Poi, dicono i maligni, passato l’effetto sorpresa, si vedrà. Giusto. Molti chef ci hanno provato e sono tornati indietro, a cominciare, nel 2001, dall’antesignano Alain Passard che ora al parigino Arpège non rinuncia neppure alla cacciagione.

Però è chiaro che non si tratta di quel modesto sette per cento di vegetariani e vegani censiti da Eurispes, né del mezzo milione nel mondo che ha aderito a Veganuary, la proposta di rinunciare alla carne per un mese a gennaio. Oggi il piccolo universo racchiuso nel piatto è il riassunto di molte delle cose a cui aspiriamo, come il rispetto, la sostenibilità, la condivisione, il non-spreco. E ogni chef ambizioso interpreta a suo modo il messaggio.

Al Mirazur di Mentone, Mauro Colagreco, preso da dolce follia, fonda il menu sull’influenza della posizione lunare sulle piante dell’orto e serve foglie, fiori, radici o frutti in base alla data della prenotazione. A Parigi Alain Ducasse, chef- imprenditore visionario, ha appena inaugurato Sapid, un «refettorio» di cucina vegetariana mutuata da culture diverse dove, su tavoli in condivisione, si beve kombucha per accompagnare radici alla brace con yogurt affumicato e cocotte di farro con salsa libanese all’aglio.

Niente di nuovo in realtà. La storia abbonda di grandi teorici del vegetarianesimo: da Plutarco al naturismo crudo di Enrico Alliata, duca di Salaparuta, alle 450 ricette del Gourmet vegetariano per carnivori dello storico della gastronomia Livio Cerini di Castegnate. La sfida è far trovare lusso, sorpresa e gusto in un piatto di verdure. «Per buone, appena colte e cotte con intelligenza che siano, sempre verdure restano» dice Davide Guidara, cuoco di Tenerumi, il ristorante vegetariano del Therasia Resort a Vulcano. «Per farle diventare gourmet bisogna adottare un mix di tecniche, da quelle antichissime come la fermentazione a quelle contemporanee mutuate dai laboratori scientifici: il sifone, il Roner, l’abbattitore, il distillatore, il bagno a ultrasuoni, il Pacojet».

Come a dire: la tradizione vista dalla Luna. Nelle cucine blasonate questo è il primo momento di eccitazione creativa dopo l’exploit della gastronomia molecolare che, a vent’anni suonati, ormai è storia. È ora di guardare a Oriente per metabolizzare il suo enorme patrimonio di cultura vegetariana con il gusto dei contrasti; è anche ora di approfondire e valorizzare quello che c’è a casa nostra, perché lo spregiativo «mangiafoglie» con cui venivano definiti i contadini adesso è un complimento e un blasone.

Antonio Guida al Seta del Mandarin Oriental di Milano quest’estate ha osato una versione vegetale della «Lièvre à la Royale», piatto di cacciagione della cucina classica francese, sostituendo la salsa fatta con il sangue con latte di mandorla, tabacco, caffè e liquerizia. Ma, al di là delle considerazioni etiche, è lecito chiedersi che cosa ne sarebbe del patrimonio gastronomico accumulato nei secoli se carni e pesci scomparissero dalle grandi tavole.

In questo senso la filosofia più originale e allo stesso tempo conservativa è quella del «piatto invertito», in cui verdura, frutta, erbe, diventano protagoniste, mentre carne, pesce e uova passano a contorno. I giovani chef reduci dalle esperienze di punta del Nord Europa, come i ragazzi di Retrobottega a Roma, hanno battezzato questo nuovo trend «green butchery», macelleria verde, prendendo a prestito il titolo della commedia noir danese The Green Butchers.

Uno scambio di ruoli impegnativo dove al cuoco, oltre a ettari di orto, servono lezioni di botanica. È fresco di tirocinio al Conservatorio Botanico di Cisternino, in Puglia, Domingo Schingaro, del ristorante Due Camini di Borgo Egnazia a Savelletri, interprete per Veuve Clicquot della Garden Gastronomy, la nuova filosofia della maison, che ha ricreato i tre ettari di orto della fondatrice a Verzy, e ha affidato lo svolgimento culinario a una rosa di chef di alto profilo dalla Francia, al Giappone, agli Stati Uniti.

Prodotto-bandiera del nuovo menu di Schingaro è l’opuntia, un raro fico d’India nano, che abbina a riso e fasolari. Poi, passando al tutto vegetale: porcino, zucca e china; ravioli di zucchine e zafferano; sedano rapa, limone e lupini. In questa prospettiva anche il panorama del vino cambia: più bianchi e rosati fruttati, meno rossi robusti. Persino il concetto dello Champagne a tutto pasto (costi a parte) diventa parte della nuova normalità. Cosa che, in vista degli inviti prenatalizi, potrebbe spingere il successo di un menu audacemente green.

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