Terrorizzati dalla malattia che ci colpisce nell’unico bene rimasto, il nostro corpo, cerchiamo salvezza negli esperti. Che però
ci trattano con sufficienza. Eppure dovrebbe esserci una via diversa, che qualcuno (timidamente) inizia a percorrere.
«Quando non si ha che il corpo per vivere, la sua immortalità diventa un’ossessione». Così ha scritto il filosofo francese Robert Redeker, che in poche parole ha colto l’essenza del nostro tempo. La pandemia da coronavirus ha fatto deflagrare definitivamente l’ossessione che da anni l’Occidente covava per la salute intesa come mero funzionamento del corpo. Per preservare il nostro fisico, per salvaguardarne le prestazioni, per sfuggire alla morte e alla malattia siamo pronti a tutto, anche ai più terribili compromessi. Siamo disposti a perdere l’anima.
La filosofia cristiana, a differenza di quella platonica, sin dagli inizi ha presentato spirito e corpo come un’unità indissolubile. Non è il legame con la carne a degradare l’anima: sono le azioni degli uomini. Chi conduce una «buona vita», può salvare tanto il corpo quanto lo spirito. Oggi, però, questa unità appare del tutto superata. Poiché, ci hanno detto, l’anima non esiste, ciò che conta è la materia, il corpo appunto. Il quale non deve essere solo preservato, ma addirittura migliorato.
Un grande genetista, Giuseppe Sermonti, spiegava che la scienza contemporanea non vuole rendere l’uomo «più umano, vuol renderlo più che umano». Perché, in fondo, solo questo conta: la macchina umana, sempre bisognosa di un «upgrade», esattamente come i supporti informatici. Si è trattato, dopotutto, di un passaggio abbastanza semplice: abbiamo sostituito una religione con un’altra. La scienza – perduta l’anima – è divenuta scientismo, e ammanta di razionalità la sua promessa messianica. Credete, ci dice, e sarete salvi. Anzi, il vostro corpo lo sarà, e soltanto quello.
Lo scientismo, scriveva ancora Sermonti, è «l’illusione di poter conoscere la realtà nelle sue varie dimensioni servendosi esclusivamente della scienza moderna, e di risolvere ogni problema umano grazie a essa e alle sue applicazioni tecniche». Curioso paradosso: lo scientismo porta a credere che la scienza sia sostanzialmente onnipotente. Ma se in effetti la scienza – che è creazione umana – è onnipotente, allora significa che lo è anche l’uomo: egli basta a se stesso, non ha bisogno di alcun aiuto trascendente.
A un certo punto, però, questa stessa visione porta a credere che l’uomo non sia poi così perfetto. Egli, così com’è, non basta: bisogna migliorarlo, possibilmente attraverso un intervento esterno. Che non è più quello di Dio, della magia o del soprannaturale.
No: è quello della scienza e della tecnica. Ecco che tutto è compiuto: l’uomo è tornato piccolo e debole. Anzi, lo è molto più di prima. E per sopravvivere, ancora una volta, deve affidarsi a una forza trascendente: cioè che doveva emanciparci ci ha resi più schiavi.
Se pensate che si stia esagerando, pensate al modo in cui oggi ci si rivolge agli scienziati, ai numerosi medici che popolano lo spazio mediatico. Terrorizzati dalla malattia che ci colpisce nell’unico bene rimasto – il corpo – cerchiamo salvezza dagli esperti, i competenti. I quali ci ammaestrano a dovere: «Comportatevi bene e sarete salvati. Se la salvezza non arriverà, sarà soltanto colpa vostra, poiché non l’avete meritata, non avete creduto e non avete rispettato i comandamenti».
Quanto sono severi, i sacerdoti dello scientismo. E quanto distanti da noi. Parlano una lingua sconosciuta ai più, si ammantano di numeri, di formule che, per essere comprese, necessitano di un lungo cammino di illuminazione. Con quanta sufficienza gli alti prelati del numero trattano noi profani. La separazione si fa sempre più grande: da un lato i sentimenti, dall’altro il freddo calcolo. Da una parte la (presunta) perfezione tecnica, dall’altro l’imperfezione umana. Da una parte il corpo, dall’altra l’anima. Eppure dovrebbe esserci una via diversa. Dopo tutto, i grandi uomini che, nell’antichità, hanno iniziato la costruzione del maestoso edificio chiamato scienza, hanno impastato i mattoni con lo spirito.
Lo ha messo bene in evidenza uno scienziato come Carlo Rovelli, autore di grande successo: «Einstein non ha nascosto il senso di quasi religiosa sacralità con cui lui guardava l’universo e i suoi misteri; sublime mi sembra sia la parola adatta a descrivere quello che è il senso di meraviglia, ma anche di ammirazione, che questo ispirava» ha detto in una recente intervista a Il Libraio. «Anche nella grande letteratura che parla di scienza, da Lucrezio a Milton, ho provato questa grande sensazione. Lo studio della natura ci riempie di stupore, ammirazione, gratitudine: sentimenti profondi, che sono veri, e che penso non siano separati dallo studio tecnico scientifico, anzi nutrono la scienza stessa» .
Ecco, questi sentimenti profondi si trovano sfogliando un libro appena uscito. Un romanzo intitolato La zattera astronomica. Come sopravvivere a un papà scienziato (Baldini e Castoldi). L’autrice è figlia di due scienziati, il celebre Giovanni Bignami (mancato precocemente) e Patrizia Caravero. Anche Giulia è scienziata, chimica di formazione, con un cursus honorum di tutto rispetto.
Confesso: per il suo libro ho provato istintiva diffidenza. Mi sembrava l’ennesimo testo di apologetica scientista, l’ennesima autocelebrazione della casta sacerdotale. Beh, mi sbagliavo. La Bignami parla di scienza, come no. Ma racconta soprattutto di scienziati: il papà, in particolare, ma anche la mamma, oltre ovviamente a se stessa. Ed ecco che all’improvviso ricompare di nuovo: la scienza che vede l’uomo nella sua interezza, con le sue passioni, il suo soffio caldo, le meravigliose e dolorose imperfezioni.
Quanta tenerezza c’è in quelle pagine, e quanto limpido divertimento. Quanta dolcezza, poi, nel leggere di una bambina con il suo papà, sdraiati sul terrazzo di casa a fare i «cacciatori di satelliti», e nella gara un satellite vale 10 punti e una stella cadente appena cinque. È lì che si ritrova ciò di cui parla Rovelli: il senso di meraviglia, di ammirazione per le dinamiche della vita. Per il creato, direbbe qualcuno, e per gli uomini che ne sono parte integrante, microcosmo nel macrocosmo.
È sul terrazzo di cui racconta Giulia Bignami, cercando una stella nel cielo, o un satellite, assieme a un padre scienziato, che sembra infine di vederla. Sì, c’è davvero, e brilla sul fondo: una scintilla d’anima dentro la scienza. E chissà, a prendersene cura, che prodigi potrebbe produrre.
