Non ci sono più i cantautori di una volta. La voce di un artista è solo una delle componenti di un brano da classifica. Realizzarlo è diventato un lavoro di squadra fatto di produttori, «beatmaker» del ritmo e persone che riescono a intercettare i gusti mutevoli del pubblico e «costruiscono» le canzoni che il mercato accoglierà.
Una volta si diceva: «Di Battisti-Mogol…». Uno era l’autore della musica, l’altro dei testi. In mezzo solo un’altra figura, quella dell’arrangiatore che cuciva su misura un bel vestito sonoro al brano, l’uomo che in sala d’incisione metteva in bella copia l’idea creativa iniziale.
Era una filiera tutto sommato semplice quella delle canzoni che scalavano le classifiche del secolo scorso. L’esatto opposto di ciò che avviene oggi. «Negli anni Settanta i cantautori cantavano sé stessi, erano autosufficienti. Il cantautorato di oggi si esprime invece nella forma del collettivo, ovvero della squadra che lavora su più livelli per dare vita e forma a una canzone. Lo si capisce a Sanremo quando a ogni brano vengono associati come autori i nomi di cinque o sei persone diverse» racconta Roberto Razzini editore musicale con oltre trent’anni di esperienza, managing director di Sony Music Publishing che nel suo roster ha per l’appunto artisti (tra gli altri, i Måneskin), produttori e autori.
«Nella musica contemporanea l’autore che scrive la linea melodica o il testo è soltanto un punto di partenza. La figura centrale è diventata quella del produttore o dei produttori che danno un inprinting al brano in linea con ciò che il mercato si aspetta. Non solo, a volte produttori e «beatmaker» partecipano anche alla fase creativa e compositiva.
Ma chi è e cosa fa un beatmaker? Elabora la base ritmica su cui poggia la canzone. Questo sistema vale soprattutto per i generi di tendenza anche perché è raro che un rapper o un trapper realizzino da soli tutto quello che riguarda un loro brano». In un tempo in cui l’ascolto di un intero album è un piacere per amanti della musica «old school», la canzone è il perno centrale su cui ruota l’intero music business.
Ma, spesso, chi canta non è la stessa persona che ha scritto la canzone: «Succede che un artista sia alla ricerca di brani per un disco oppure di un singolo per l’estate o di un pezzo da presentare a Sanremo. A quel punto entra in azione un team di creativi che lavora con me e che si mette a scrivere qualcosa in linea con le caratteristiche del cantante che fa la richiesta. In questo caso “andare in buca” significa ottenere il gradimento dell’artista e del suo manager. Ma c’è anche un’altra opzione, ovvero quella dei brani composti da autori che li hanno realizzati non su commissione. Sono canzoni neutre che trovano una paternità successiva alla loro creazione, brani «orfani» che, ascolto dopo ascolto da parte degli addetti ai lavori, svelano quale potrebbe essere la loro destinazione. Che è a largo spettro: a seconda di come viene realizzato il provino, lo stesso brano può funzionare per un artista mainstream, pop, oppure per chi ha un’impostazione più classica. A questo proposito cito sempre l’esempio di My Way, una canzone universale che ha avuto migliaia di interpretazioni diverse, incluse le due più agli antipodi, quella di Frank Sinatra e quella punk di Sid Vicious dei Sex Pistols» spiega.
Ecco quindi che la figura chiave nelle hit del presente e del futuro – ovvero quella del produttore – in realtà interpreta un ruolo ibrido, che vale spesso come e più degli autori di canzoni, perché in una funzione ne sono contenute tante. Intercetta il sentire comune, il «mood» sonoro del momento, partecipa alla scrittura dei brani e li colloca attraverso la scelta dei suoni in un contesto preciso.
«Takagi & Ketra sono un binomio perfetto di enorme successo: sono produttori, artisti e autori. Quando mi fanno ascoltare un provino, quello è già il prodotto finito» racconta Razzini.
In un contesto musicale «urban» che ha nel rap e nella trap i punti di riferimento per il pubblico dei teenager, c’è un’oasi rock and roll chiamata Måneskin. Che piacciono a giovani e adulti e hanno rimesso al centro della scena mondiale un genere, il rock appunto, che sembrava consegnato definitivamente al culto della nostalgia.
«Quando ho visto la loro prima esibizione a X Factor sono rimasto paralizzato sul divano perché si percepiva la verità di ciò che facevano. I Måneskin hanno un approccio “old style” nel senso più alto di questa definizione. Loro sono un gruppo, suonano davvero, hanno bisogno di canzoni di un certo peso, di farle proprie per sentirle proprie. Per loro è fondamentale che ci sia il brano prima di tutto, poi quel che viene aggiunto in fase di produzione per rendere qualitativamente superiore il pezzo è un di più, un plus. Ma quel che conta sul serio è la canzone. Sul versante opposto, ci sono i brani-tormentone dell’estate in cui si cerca soltanto il gancio nel ritornello di 15 secondi che è vincente rispetto a tutto il resto». n
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