Centocinquant’anni fa nasceva l’uomo su cui gravano le maggiori colpe per la sconfitta di Caporetto. E che, nella Prima come nella Seconda guerra mondiale, sotto il fascismo come dopo la sua caduta, riuscì sempre a piegare verità e responsabilità a suo favore.
Fascista quando conveniva ma, se risultava utile, anche antifascista. Dalla sagacia contadina che portava le «scarpe grosse» ma possedeva il «cervello fino», Pietro Badoglio (che nasce il 28 settembre 1871, 150 anni fa) aveva ereditato l’abilità di sostituire le amicizie nel tempo sufficiente per risultare credibile.
Con identica tempestività, riusciva a far incolpare qualcuno per responsabilità tutte sue e, in compenso, appropriarsi di meriti altrui. È l’uomo su cui gravano le maggiori colpe per la sconfitta di Caporetto, nella Prima guerra mondiale, dalla quale uscì con una promozione sul campo. Ed è quello dell’8 settembre 1943 (Seconda guerra mondiale) che spaccò l’Italia, mettendone una contro l’altra in un conflitto sanguinoso e fratricida.
Badoglio fu personaggio di rilievo per quasi tutto il secolo ventesimo che attraversò, accumulando onori e stipendi. Ogni volta che lo si incontra, verrebbe voglia di impiccarlo all’albero della storia. La presunzione e, qualche volta, l’insolenza, con cui si presentava, obbligano gli studiosi a porsi una questione che resta senza risposta: come mai tante protezioni e tanta fortuna? Era un mediocre che si alzava alle sette del mattino, all’una si sedeva a tavola e alle nove e mezzo – cascasse il mondo – andava a letto. Stava un quarto d’ora a leggere, poi spegneva la luce e, come se avesse tastato anche l’interruttore del suo cervello, si addormentava di scatto. Come a comando. Pranzava in 22 minuti poi – non importa chi avesse come ospite – si alzava e andava a passeggiare.
I giornali, li guardava, distrattamente. Del resto, quanto capitava nel mondo, lo lasciava del tutto indifferente. Si potrebbe sintetizzare che Badoglio si impegnò in un solo programma: la sua carriera. Durante la guerra in Libia, quando era capitano, trovò modo di partecipare a uno scontro decisamente secondario, attorno alla fonte d’acqua di Ain Zara. Quattro fucilate ma nei resoconti ufficiali – chi poteva sostenere il contrario? – sembrò un conflitto degno della battaglia napoleonica di Austerlitz.
Un’altra scaramuccia, a Zanzur, passò per una vera battaglia e lui, condottiero di quelle imprese militari, fu ritenuto meritevole della promozione a maggiore. Durante il conflitto mondiale 1915-18 comandò i reparti che conquistarono il Sabotino, ma il merito non era suo. Il progetto della battaglia era dovuto ai generali Luca Montuori e Giuseppe Venturi e l’esito favorevole dello scontro dipese dal maggiore Abelardo Pecorini, al comando dei «Lupi di Toscana». Tanto che, dopo il successo sul nemico, Venturi voleva sottoporre Badoglio al giudizio della corte marziale perché, dopo lo scontro, aveva abbandonando il suo posto, perdendo l’occasione di sfruttare il risultato. Il generale Luigi Capello, invece, comandante dell’Armata, lo promosse sul campo e, in seguito, quell’episodio gli valse il titolo di «marchese del Sabotino».
Alla vigilia di Caporetto, si sapeva che l’attacco austro-ungarico tedesco doveva avvenire sullo spicchio di fronte che Badoglio doveva proteggere. «E chiel, l’on cà fa chiel?» gli aveva chiesto Luigi Cadorna e lui, rispondendo in piemontese, lingua nobile nell’esercito sabaudo, dichiarò che si sentiva assolutamente a posto. Forse – giusto un dettaglio – si era dimenticato di preparare i campi di concentramento per i nemici che avrebbe catturato. Assicurò: «Ho tante artiglierie da sterminarli appena escono dalle trincee».
In effetti, disponeva di 800 bocche da fuoco che potevano radere al suolo gli altopiani ma dispose che nessuno sparasse perché, quell’ordine, voleva impartirlo personalmente. Però, non rimase in linea, a Ostri Kras, come sarebbe stato logico se voleva condurre le operazioni della battaglia. Si ritirò a Cosi dove si trovava il suo quartier generale. Solo tre chilometri ma quando scoppiò la tempesta di fuoco, anche quella distanza relativamente breve diventò insormontabile.
Secondo lui non ci sarebbero stati problemi. Aveva il telefono ma non si era preoccupato di fare interrare i fili perciò le prime granate mandarono in frantumi gli impianti. Disponeva di «strumenti ottici» ma la nebbia che era calata rese invisibile anche il vicino. E se pensava di utilizzare i «mezzi acustici», prodotti dalle trombette bi e tri-tonali, il frastuono della battaglia impedì che quel flebile richiamo potesse essere percepito. Mandò dei messaggeri per portare ordini e ricevere informazioni ma vennero ammazzati dallo sbarramento degli austriaci. Restò muto, come un conferenziere che aveva perduto la voce.
A volte la storia è perfida. Cannoniere – Alfredo Cannoniere – è il nome del colonnello, destinato al comando di quella rassegna sterminata di batterie che, rispettando le consegne, non sparò nemmeno un colpo. Per quanti arzigogoli si vogliano imbastire, la sconfitta della Prima guerra Mondiale, il nome del primo responsabile, l’ha indicato: Pietro Badoglio.
Tracotante prima della battaglia, il generale si ritrovò annichilito. Qualcuno disse che, correndo per scappare, perse il cappello. Altri assicurarono che si sedette su un masso, mormorando che non restava che aspettare i carabinieri che, certamente, sarebbero arrivati per portarlo in prigione. Comunicò al comando che aveva fatto riconquistare il Globocak e non era vero perché, in quel momento, la montagna non era stata nemmeno perduta.
Ordinò alla «19 divisione» di correre a difendere la linea dello Jeza, ignorando che la «19» era già lì proprio per quello. Chiese a tre divisioni di traghettare sulla destra dell’Isonzo, quando ormai non c’era più niente da fare perché l’esercito nemico ci era già passato da un pezzo. E, giusto per addossare qualche sua colpa sugli altri, denunciò che la brigata Lecce aveva ceduto, ritirandosi, senza combattere.
Era un’infamia ancora più grande perché quei ragazzi si erano fatti massacrare, per colpa delle sciocchezze che lui aveva deciso per loro. Al processo le trenta pagine che descrivevano le sue responsabilità vennero strappate (sembra su sollecitazione del re Vittorio Emanuele III in persona) tanto da ritrovarsi a svolgere le funzioni del vice di Armando Diaz nominato capo di stato maggiore. In pratica il numero due dell’esercito.
Poca gloria anche in Etiopia (1936). Non riuscì a spuntarla contro un esercito di combattenti locali raccogliticci e li sconfisse, con poca gloria, usando i gas. Dovette apparirgli disdicevole perché non ne fece cenno e, a distanza di decenni, tentò ancora di negare le circostanze. Ma della vittoria menò vanto come era accaduto in occasione dei trionfi della Roma imperiale. Accanto all’androne d’ingresso di casa sua, fece murare una lapide con l’incisione «Come falco giunsi», che doveva richiamare il più famoso «Veni, vidi, vici» di Giulio Cesare.
Attorno a lui – sempre e comunque – sospetti infamanti. Fu il liquidatore dei drammi nazionali e, come capita in occasione delle grandi svendite, c’è qualcuno che perde tutto e qualcun altro – lui – che si arricchisce. Si vantò, quando era ambasciatore in Brasile, di percepire l’assegno di un milione, di averne guadagnati cinque, quando era governatore della Libia e di averne intascati 26, vendendo a un marajà indiano i vasi del palazzo imperiale del Negus di Addis Abeba.
Dopo ogni sconfitta, all’esito di cui Badoglio non poteva considerarsi estraneo, riusciva a scambiare il posto dell’imputato con quello del giudice. Decideva le sentenze, anziché subirle e si ritrovava a essere riconfermato negli incarichi che aveva malamente svolto. Anzi, promosso. Che, in proporzione, aumentasse anche il disprezzo che lo circondava, gli interessava relativamente. Di difensori ne aveva pochi e, come tutti i difensori delle cause perse, per aiutarlo, si trovarono costretti a giocare con le parole, arrampicarsi sui vetri, ingrandire il dettaglio, a costo di trascurare l’insieme.
Ai Savoia, d’altronde, andava bene. Loro si tenevano sempre a disposizione un generale da poter utilizzare nell’emergenza. Badoglio, occorreva salvarlo, perché poteva servire per il «dopo». E, infatti, con Benito Mussolini disarcionato (il 25 luglio 1943) Vittorio Emanuele III lo nominò presidente del Consiglio. Untuoso con i fascisti nei confronti dei quali si rivolgeva con umida cortesia; codardamente ostile una volta disarcionati dal potere.
Avrebbe dovuto traghettare il Paese fuori dalla guerra e assicurare agli italiani un po’ di pace. Riuscì soltanto a indispettire gli americani e corse il rischio di trovarsi accerchiato con gli Alleati che gli davano addosso e i tedeschi che non si fidavano più.
Risultato? L’8 settembre quando occorreva decidersi dove stare, lui – come sempre – dormiva. Riposava nel suo letto quando gli sarebbe toccato il compito di organizzare i reparti disorientati.
Lo svegliarono perché leggesse il comunicato della «guerra che è finita» ma che «continua». Furono ore di decisioni sofferte (per gli altri). Mentre gli italiani dovettero scegliere di farsi massacrare – o con i nazi-fascisti o contro di loro – il maresciallo d’Italia, curvo sotto il peso delle medaglie, intrepido, stava scappando verso Brindisi. Lui, il re e uno stuolo di ufficiali.