2:22 - Il destino è già scritto, al cinema con mistero – La recensione
Teresa Palmer e Michiel Huisman in un thriller metafisico, arcano e romantico: per guardare indietro nel tempo attraverso la luce delle stelle
L’inizio è saettante. Sospeso tra sogno e realtà. E pare difficile capire dove finisca l’uno e incominci l’altra.
Fatto sta che Dylan Boyd (Michiel Huisman), controllore di volo e giovine di grandi intuizioni, è preda una notte d’uno di quegli eventi onirici-choc effettivi e tangibili: un delitto alla iconica Grand Central di New York, dove un uomo fuori di sé uccide una donna incita che sta partendo con un altro.
Gelosia cieca e terrore diffuso tra spari, urla e fuggi fuggi generale che rimandano tanto, forse troppo, a quest’epoca di attentati.
Nell’attesa del fatale appuntamento quotidiano
Ma 2:22 – Il destino è già scritto(in sala dal 29 giugno) di Paul Currie, 49enne australiano di Melbourne del quale si ricorda solo One Perfect Day, 2004, è film di tutt’altra pasta e lascia la cronaca dietro la porta.
Anzi, bandisce la materia e piomba nello spirito calandosi in una dimensione supernatural costeggiando le teorie della fisica sulla gravità quantistica a loop e sui misteri del tempo. Già, perché Dylan, una volta fatto e per nulla digerito quel sogno, s’incastra in un vero e proprio sortilegio: ogni giorno, alle 2:22 del pomeriggio – l’ora del delitto scandita dal grande orologio della stazione newyorchese – rivive l’evento tragico; e, approssimandosi quel fatale appuntamento quotidiano, ne ripercorre esattamente il preludio in una pazzesca iterazione di fatti, immagini, persone incrociate in strada, suoni e colori.
La distrazione fatale del controllore di volo
Il fenomeno, del tutto incontrollabile per Dylan che teme d’esser diventato matto e fatica, com’è ovvio, a farsi credere dagli altri, lo destabilizza al punto di fargli rischiare una catastrofe in aeroporto quando, dalla torre di controllo dove regola il traffico, dà contemporaneamente l’ok per l’atterraggio e il decollo a due jet che arrivano miracolosamente soltanto a sfiorarsi.
Il poveretto, i guai del quale sono appena all’inizio, viene ovviamente sospeso dall’incarico. Anche se subito dopo, quasi a compensazione, conosce il rapimento amoroso imbattendosi nella leggiadrìa di Sarah (Teresa Palmer), che nell’apoteosi delle coincidenze scopriremo passeggera graziata dalla sorte mentre atterrava proprio su uno di quei due aerei della collisione mancata.
Felicità in arrivo sulle ali (già…) dell’avvenenza muliebre? Neanche per idea. La faccenda, anzi, s’ingarbuglia ulteriormente in una sequenza inarrestabile e ossessiva di repliche routinarie che sembrano rovinare verso destini nefasti: rispetto ai quali neppure la forza dell’amore e la “consapevolezza di ciò che accadrà” sembrano poter fare da antidoto.
Una dimensione temporale affascinante ed enigmatica
Altro non è da raccontare perché il thriller metafisico, esistenziale e fantascientifico che il film rappresenta in una morbida – ancorché avvincente – connotazione romantica, non aspira certo per sua natura ad essere divulgato. Piuttosto vale la pena di ragionare sul concetto di dimensione temporale che governa l’intrico, nei termini d’un argomento che continua ad affascinare e a suggerire soluzioni nuove e orizzonti enigmatici. Come quello legato alla velocità superluminale capace, in teoria, di svelare una diversa nozione di Tempo (e di spostamento all’interno del suo asse). Non è certo un caso che a presiedere la vicenda di Dylan Boyd ci sia il suo continuo riferirsi al cielo stellato che suo padre, pilota d’aeroplani, gli evocava quand’era in vita e ancora oggi lo ispira in una sfera ovviamente nostalgica e struggente.
Fuori campo, il pensiero di Dylan, che avrebbe voluto fare il pilota come suo padre ma ha paura di volare, diventa voce e narra della luce delle stelle e della sua velocità: quando una stella muore vediamo il suo bagliore estremo e disperato con decenni di ritardo rispetto all’evento reale. Così, si desume, ci troviamo di fronte a due forme di “presente”, uno concreto e uno percepito, uno materiale e uno illusorio. Distanti, appunto, anni-luce e flottanti nell’incomprensibile formato dell’universo. Dove ballano le ossessioni e le nuove realtà visitate da Dylan e gli occhi bleu di Sarah, donna bellissima, in pari misura innocente, decisa e arcana.
Bella coppia d’attori sulla musica di Lisa Gerrard
Tra stelle morenti e campi magnetici il film - che non è un capolavoro perché resta un po’ indeciso tra i generi ma seduce, qualche volta abbàcina e in definitiva piace - espone la sua migliore mercanzìa, inseguendo simultaneamente la storia d’amore e il mistero che l’accompagna, inclusa l’aria gravida di maledizioni che a tratti pare avvolgere ogni cosa. Il racconto è iperteso e iperromantico, è recitato consapevolmente da Huisman e Palmer che fanno una bella coppia, gode d’un montaggio stretto e veloce che apre all’azione sincopata sull’ottima fotografia di David Eggby, si riempie d’attese e di tensioni nel passaggio delle ore, dei minuti e dei giorni. E soprattutto insegna a guardare indietro nel tempo attraverso la luce delle stelle.
In sintonia coi contenuti sono le musiche. Sulle quali – firmate insieme con James Orr - ci sono la mano e la voce miracolose di Lisa Gerrard, anche autrice di colonne sonore di successo (ad esempio quella del Gladiatore di Ridley Scott), qua immersa nell’onda della Ethereal (e in parte Dark) Wave e del Dream Pop a fasciare d’atmosfere e partiture convenienti i passi di maggior attrazione della storia.