Franca Rame, non facciamone un santino
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Franca Rame, non facciamone un santino

Il soccorso rosso ai brigatisti. La militanza nell'ultrasinistra. I soldi raccolti per Achille Lollo, il terrorista-piromane di Primavalle. Va bene il rispetto per la morte, ma il suo non fu teatro dell'impegno civile

 

Franca Rame. “Un paradigma di passioni civili”. “La dedizione generosa per gli altri ne ha fatto una donna speciale”. Memorabili le sue “battaglie per i diritti civili e sociali al fianco di studenti e lavoratori”. Tra poco sarà pubblicato “il suo testamento civile”. “Una grande donna”, che ha dato voce alla “vera sinistra”. Leggo di tutto in queste ore.

Bene. M’inchino alla personalità, alla bellezza, all’energia artistica, alla grande passione di Franca Rame. Ma per rispetto verso la schiettezza che la animava, non è giusto dimenticare le battaglie che non ha mai rinnegato. Battaglie incivili. Il soccorso rosso a fior d’assassini. La gogna pubblica di magistrati e funzionari di polizia negli anni in cui puntare l’indice poteva significare (e in qualche caso ha realmente significato) condanne a morte. Al pestaggio. A una vita vissuta nella paura.

Erano anni terribili, ma proprio per questo non mi piace innalzare altari laici a personaggi che hanno il fascino della militanza, non quello della lotta per la democrazia e la libertà. Impegno civile, per me, è quello dei volontari che vanno in Africa, che lavorano nelle carceri per il recupero dei detenuti, dei maestri nelle scuole di periferia, nelle borgate con tassi elevati di criminalità. O dei medici ospedalieri che sacrificano anche la famiglia e il proprio tempo, tutto, per curare e salvare la vita. L’impegno dei magistrati senza nome in prima linea, dei poliziotti e carabinieri che credono nel loro lavoro nonostante tutto e rischiano la vita ogni giorno.

No, non direi che è stato impegno civile quello di Franca Rame che decise di confortare, appoggiare e raccogliere soldi per “far sentire meno solo” Achille Lollo, autore con altri di Potere Operaio dell’incendio nel quale rimasero carbonizzati i fratelli Mattei a Primavalle, quartiere proletario di Roma, il 16 aprile 1973. Non fu civile avallare il complottismo che voleva quel rogo opera del giro dei Mattei (“Ho provato dolore e umiliazione – scrisse Franca Rame - nel vedere gente che mente, senza rispetto dei propri morti”). Non lo fu scatenare una campagna innocentista tutta ideologica che ebbe forse una parte nell’altalena di sentenze che diede modo e tempo agli assassini di svignarsela all’estero. Non fu impegno civile quello che spinse Franca Rame a scrivere al presidente della Repubblica, Giovanni Leone, augurandosi che cadesse “la vergognosa montatura, ma intanto questo governo lo tiene dentro (Lollo), perché questo serve al sistema”. Non fu civile il linguaggio dell’appello di “intellettuali” che puntarono l’indice contro poliziotti e magistrati accusati di avere ucciso l’anarchico Pinelli, in particolare contro Luigi Calabresi di cui si disse che “porta la responsabilità della sua fine” (e fu poi ucciso, per quella “responsabilità” attribuitagli in anni in cui bastava molto meno per diventare bersaglio della violenza politica).

Il Soccorso Rosso Militante (SRM) difese assassini e ricercati in fuga. Tutta una cultura di quegli anni fiancheggiò e giustificò eccessi che assunsero anche connotati di terrorismo.  

Alcuni di quelli che oggi rivestono ruoli di potere nell’industria culturale italiana provengono da quell’humus, ne fecero parte, e non sono pentiti. Hanno costruito un regime che per decenni ha messo al bando intellettuali di segno diverso, condannando alla pubblicazione postuma autori come Guido Morselli (che anche per questo si uccise). Quella cultura militante non è stata contro il potere. È stata e in parte è ancora l’incarnazione del Potere (anche economico). Proprio per rispetto del carattere vero e potente della personalità artistica di Franca Rame e Dario Fo (personalmente, per esempio, considero giustificato il Nobel a Fo), dimenticare i danni e l’odio provocati da una certa cultura militante che non ha mai ritrattato sarebbe oltraggioso verso la sofferenza di tante famiglie e verso la vita negata a quanti sono caduti negli anni col sottofondo teatrale di quell’intolleranza incivile, a tratti sanguinaria.

L’arte non è tutto. Soprattutto, non è un metro di giudizio etico-politico.

E il dolore per la morte non giustifica i santini dei sopravvissuti, che non servono ai morti mentre santificano gli errori dei vivi.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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