Carlo Rovelli
Ansa/Flavio Lo Scalzo
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Datemi tempo e vi stupirò di nuovo

Con "Sette lezioni di fisica" Carlo Rovelli ha conquistato classifiche e cuori. Ora si aspetta il suo nuovo libro. Incontro esclusivo con lo studioso

Come farà Carlo Rovelli, anno 1956, fisico teorico, studioso di meccanica quantistica e della teoria dei loop, con 200 pubblicazioni scientifiche all’attivo, a stupire i milioni di lettori che attendono il suo nuovo libro? Sette lezioni di fisica (Adelphi) è stato il titolo più venduto su Amazon nel 2015, tradotto in varie lingue e ovunque ai vertici delle classifiche, 350 mila copie vendute solo in Italia. Un’ottantina di pagine leggere e dense, un elogio accorato alla meraviglia del non-sapere.

Passione (tanta), più poesia (tantissima), impastate con nozioni sull’universo, forza di gravità, particelle elementari. Un gioiellino, un libro di una semplicità aristocratica, profondo, sorprendente, come lo è il signore che lo ha scritto e che ora, in un bar romano troppo rumoroso per la sua voce mite, fa quello che fa da 40 anni: risponde a delle domande.

Richard Feynman, Nobel per la fisica nel 1965, ha scritto: "La fisica è come il sesso. È utile, ma non è per questo che lo facciamo". Condivide?
La fisica è affascinante perché influenza il nostro pensiero per comprendere il mondo e perché appaga il piacere della curiosità. Noi umani siamo programmati per essere curiosi.  

Il suo bestseller è un bel bagno di umiltà: siamo piccoli, molto ignoranti, poca cosa rispetto all’universo.
Fisica e astronomia ci mettono a posto. Gli umani hanno vissuto sempre pieni di se stessi, da presuntuosi.

E lei come è incappato nella fisica?
Da studente stavo molto per conto mio, studiacchiavo, avevo per la testa ideali, volevo viaggiare e cambiare il mondo. Ho oziato tantissimo e mi sono autoassolto, perché le idee arrivano nell’ozio, come ha insegnato Albert Einstein.

Ozia anche ora?
Certo, quando posso vado sul mio gozzo centenario che ho appena restaurato. E poi leggo tantissimo, tre o quattro libri alla volta, di filosofia, antropologia. E di neuroscienze, che mi affascinano molto.

Da ragazzo era un bel peperino, ha avuto anche qualche guaio giudiziario per renitenza al servizio militare. Mondadori a febbraio ripubblica il suo primo libro, un poco "politico", La rivoluzione di Anassimandro.
C’è molto di me. Se uno vuol capire chi è Carlo Rovelli, quello va bene. Parlo del filosofo greco, ma in realtà esploro la mia visione della società. È un testo strano, ideologico. È il mio libro più bello.

Ma come? Non è né Sette lezioni, né il prossimo? A proposito, ci sta lavorando?
Pian piano, con dubbi e ripensamenti.

Ansia da performance?
Ho un carissimo amico, il cui primo romanzo è stato acclamato e i successivi trattati male. Diranno anche del mio: "Oh, che brutto!".

Si sta schermendo?
Io sono un fisico teorico, non uno scrittore, perché mi ostino a scrivere? Il Times, recensendo Sette lezioni, ha scritto una frase del tipo: "Se Rovelli prenderà il Nobel, non sarà famoso come lo è per questo libro". Ma come? È da 40 anni che lavoro sui quanti? E tutta la fatica fatta?

Meglio ritornare ai loop?
Una parte di me si ribella e mi dice: "No, fai le cose serie". Un’altra mi sprona a scrivere.

Che cosa dobbiamo aspettarci? Un altro concentrato di passione?
Sarà sempre sulla fisica, ma sarà più distaccato. Non voglio fare una continuazione di Sette lezioni, casomai un approfondimento su cosa ci dice la fisica.

Le tocca essere più preciso…
Sarà un libro sul tempo.

In Sette lezioni già spiegava che la teoria dei loop annulla la variabile tempo e che lo spazio non è da considerarsi un continuum. Ci spiazzerà anche stavolta?
Vorrei far capire cosa ci insegna la fisica come esseri umani.  

Purché ci sia sempre passione...
Sette lezioni è una storia d’amore. Per questo ha avuto successo, alla gente piacciono le emozioni forti. Il mio mondo è fatto di persone che vivono di passione.

Vuol dire: niente scienziati pazzi con i capelli arruffati?
C’è una forte competizione ma è un privilegio fare questo lavoro se si ama la fisica.

Tocca però andare all’estero, come ha fatto lei.
È bello andare in giro per il mondo. Il problema dell’Italia è che non fa venire gente. L’università, da qualche decennio, è sacrificata dalle scelte politiche malgrado tutti dicano "Bisogna investire in ricerca". Però, poi non succede. L’Italia vive sul suo splendido passato e non sul presente.

Ritorniamo alla passione: quando il colpo di fulmine?
In due momenti, il primo quando sono incappato nella meccanica quantistica studiando fisica teoretica. Il secondo fu più casuale: trovai in università la fotocopia di un articolo che doveva essere ancora pubblicato, una sintesi della meccanica quantistica che però rimetteva in gioco tutta la grammatica per la comprensione del mondo. Rimasi affascinato e andai a trovare il professore che l’aveva scritto. "E se facessi questo mestiere?" mi sono detto. Mi appassionò molto l’idea di studiare lo spazio-tempo e da allora, cioè da 40 anni, non faccio altro che farmi domande e tentare di avere delle risposte.

Leggendo i suoi scritti si direbbe che l’avverbio a lei più familiare è "forse". È così?
Fare lo scienziato vuol dire mettersi di fronte alla propria ignoranza e accettarla.

Con il mito della razionalità, però?
No, al contrario, fare ricerca è un percorso emozionale. Per mesi studi una cosa e poi scopri che non funziona la tua idea. Ci si incontra in un bar fra colleghi, si scrivono formule sulle tovaglie di carta o sui tovagliolini; l’equazione alla base della meccanica quantistica è stata scritta da John Wheeler in un bar di un aeroporto, fra un volo e l’altro. Io per esempio scrivo alla lavagna, scrivo e cancello, scrivo e cancello, scrivo e cancello…

Anche l’idea di Sette lezioni è nata alla lavagna?
È stata la mia fidanzata a spingermi a scriverlo. Il Sole 24ore mi aveva chiesto alcuni articoli, in agosto ne uscirono tre sulla meccanica quantistica. "Possibile che la gente sotto l’ombrellone se li legga?" mi domandavo. E invece funzionarono. Tre o quattro mesi dopo mi chiama Adelphi e mi convince a fare un libro. Lo ammetto, lì ha giocato la vanità, l’idea di avere il mio nome su una copertina colorata, io che sono cresciuto con i loro titoli, con la letteratura mitteleuropea, Gödel Escher Bach, Ludwig Wittgenstein.

È stato difficile trovare la formula giusta?
Ho tolto, eliminato, cassato, erano 300 pagine: "Questa cosa serve per capire? No, allora la levo". Ho lasciato solo il cuore delle esposizioni.

Ma non è che la scienza sta correndo troppo? Staminali, tecnologia…
Non è vero che c’è innovazione. Mio nonno, durante la sua vita, ha visto la radio, la televisione, la luce, gli aerei, la bomba atomica. E i trattori, quella sì che è stata una rivoluzione, non i telefonini. Le staminali? Solo in Italia fanno paura perché siamo intrisi di bigottismo.

Però, nel passato è successo che gli scienziati entrassero in crisi pensando all’effetto delle loro scoperte.
Albert Einstein, pacifista convinto, si misurò con la bomba atomica temendo la Germania nazista. Poi si pentì. Ma c’è un punto fermo: la non-conoscenza non ci fa sopravvivere.

Che cosa significa?
Siamo in tantissimi su un pianeta già molto compromesso. La scienza ci aiuta a limitare i danni. Se capiamo certi fenomeni, sappiamo come comportarci.

Senta, questa è l’ultima domanda, e sto in tema: è un caso che parecchi fisici si siano suicidati? Lei come è messo con la morte?
Sì, sono angosciato ma dalla vita eterna. Vivere anche dopo la morte mi dà molta ansia. «Sono sazio di giorni» dice la Bibbia. Io ho vissuto, amato, studiato, oziato, piantato un albero. Anche scritto…    

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Stefania Berbenni