Due latitanti in Sicilia: Gauguin e Bonnard. La famiglia imprigionata dai capolavori
Il ministro Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, Dario Franceschini con il Generale di Brigata, Mariano Mossa, durante la presentazione dell'attività operativa 2013 del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, e del recupero di un dipinto di Paul Gauguin ed uno di Pierre Bonnard, 02 aprile 2014, a Roma. ANSA/CLAUDIO ONORATI
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Due latitanti in Sicilia: Gauguin e Bonnard. La famiglia imprigionata dai capolavori

Nascosti per quarant'anni in un salotto siciliano. La storia di due capolavori comprati per caso e che valgono milioni

Da ventisei anni Gauguin e Bonnard sorridono solo a Salvatore. Loro lo proteggevano prima che nascesse, lui li conosceva prima ancora che li scoprisse. E adesso che se li sono portati via nel suo volto c’è un alone, lo stesso della parete bianca e nuda, quando ricorda e riconosce: «Io ho sempre saputo chi fossero…». Erano i veri latitanti di Sicilia, due capolavori, uno di Paul Gauguin e l’altro di Pierre Bonnard, contumaci come Matteo Messina Denaro. Li hanno catturati in questo salone di Siracusa tra un piatto di cassata e un bicchiere di zibibbo.

Ebbene signori ce l’avevano fatta: da 50 anni non frequentavano le mostre d’arte, da 20 anni erano fuggiti da Torino, ingannato la gendarmeria della critica, scampati agli arresti dei collezionisti. Non erano solo due quadri, queste tele che il Nucleo patrimonio artistico di Roma ha recuperato, ma quasi un tentativo di fuga dalla museificazione, da quel marketing che secondo il critico Roberto Longhi ha fatto delle arti figurative nient’altro che «carne da cannone». Nel paese delle bufale e delle croste, le tele più autentiche le possedeva Salvatore e il padre Nicolò, un ex metalmeccanico della Fiat che le ha comprate durante un’asta ferroviaria di oggetti smarriti per soli 45 mila lire. Valevano milioni ma li stavano gettando nella rumenta, in pratica nella discarica, forse la vera sede del museo più grande del mondo che non è altro che un museo di arte rubata.

E anche la loro “costituzione”, il loro svelarsi, è accidentato come il trafugamento avvenuto nel 1970 ad opera di una banda di ladri che li aveva sottratti a Londra ai coniugi Marxs e Kennedy; l’ennesimo furto d’arte che come dice Roberto Fagioli, autore de “L’ombra di Caravaggio” sembra pronto per un intreccio «perché il quadro è sempre il migliore plot per scrivere un romanzo giallo». E non posso che dargli ragione quando ascolto Antonio Coppola, il maggiore del Nucleo Patrimonio Artistico a cui si deve il recupero, raccontare che qui la “soffiata” che ha permesso la cattura dei quadri è opera della curiosità e non della tecnica, più fiuto che laboratorio, più intuito che chimica del colore. Coppola senza accorgersene compone un incipit che sembra preso da Georges Simenon: «Era un’indagine agostana …» e dite se non ricorda un monologo di Leonardo Sciascia il battibecco fra questo maggiore dei carabinieri e i professori di storia dell’arte che i quadri in un primo momento non li hanno presi neppure in considerazione: «Io chiedevo: mi dica professore a suo parere quel quadro scomparso a chi appartiene? E il professore: Un’opinione ce l’ho ma è la stessa che dovrebbe avere lei». E non può essere che una fortunata maledizione questa che avvolge l’arte da sempre vittima di furti, scomparse e ritrovamenti inverosimili come quello di Vincenzo Peruggia che rubò la Gioconda e se la tenne nel baule per due anni, o ancora le sette meraviglie del Rinascimento portarti via dal museo di Budapest in un sacco di juta, fino a quel “Ritratto di signora” di Gustav Klimt ritrovato nel solaio di una canonica.

Coppola dice che se si fossero fermati a spulciare la banca dati delle opere rubate («un fiore all’occhiello che ci invidiano i governi di mezzo mondo» sottolinea) i quadri sarebbero ancora primule rosse: «Ci hanno consegnato delle foto dicendoci che si potesse trattare di un Gauguin e di un Bonnard, ma di quei quadri non c’era nessuna traccia, neppure nelle banche dati internazionali». E a consegnare le foto, attraverso un carabiniere del nucleo patrimonio artistico, in realtà è stato Salvatore, studente di architettura e affettuoso carceriere, l’unico che li ha compresi, l’unico che li ha custoditi in questo paese di diecimila abitanti che ne ignora l’acume e la fatalità. Salvatore confessa che li ha smascherati studiandone le firme come fanno i filologi per risalire agli archetipi dei testi: «Uno si firmava Bonnato e l’altro si firmava con un cagnolino al posto del cognome, sono partito da quello e sono arrivato all’origine». Ecco, è l’ennesima storia semplice che rischia di finire in un rompicapo e in una trappola come sempre avviene in Sicilia.

E infatti c’è pure la magistratura di Roma che ha aperto un fascicolo per ricettazione, come avviene sempre, e che come spiega l’avvocato che li tutela sembra tuttavia andare verso l’archiviazione «perché la buona fede della famiglia è provata dato che sono stati i proprietari stessi a favorirne la scoperta e chiederne l’autenticità». Qui però le parti si sono invertite: a nascondersi non sono più quadri ma i proprietari dei quadri. Li cercano tutti e si negano a tutti perfino alla televisione: «Ho detto no anche a Fabio Fazio…» che era già pronta a farci una trasmissione, un altro baraccone tra scrittori e presidenti della Repubblica in onda in prima serata su Raitre. Insomma, questa famiglia siciliana rischia di essere imprigionata da Gauguin e da Bonnard che in questa regione sono un rischio, un patrimonio e pertanto un pericolo.

Eppure dovrebbe sapere che se è stato difficile nascondere due capolavori ancora più difficile sarà nascondere loro stessi. E’ finito per essere un segreto endogamico che si tengono dal 2004 insieme ai parenti, come si fa con i patti di sangue: «Sapevamo di avere in casa un Gauguin e un Bonnard, ma non ci siamo mai rivolti a nessuno e nessuno lo ha mai rivelato, neppure i nostri parenti». E la sopraintendenza? «Avevamo solo fissato un appuntamento che non c’è mai stato». Allora per la prima volta viene voglia di abbracciare questi sopraintendenti, i vituperati papaveri dell’arte italiana a cui tutto si può rimproverare ma non la requisizione forzata di un’opera sconosciuta. Ma proprio nessuno, chiedo, ne era rimasto folgorato? «L’unico a vederlo è stato un professore di liceo che si era limitato ad apprezzarli». E Salvatore mi mostra la parete dove erano appesi insieme ad altre nature morte, oggetti svariati di antiquariato, macchine fotografiche usate, strumenti scientifici che il padre Nicolò ha raccolto e che si è trasportato da Torino in Sicilia come fanno i rigattieri con i loro carretti sempre accompagnati da cianfrusaglie.

Erano convinti di avere un “Bonnato” e sono arrivati a Bonnard sfogliando biografie, accatastando cataloghi di mostre, bighellonando per mercatini che sono il vero Bengodi italiano, l’unico museo che ha più opere che uscieri. E Nicolò che è solo un metalmeccanico dice che “Bonnato” non è un’invenzione sua, ma delle Ferrovie Italiane che lo spacciarono per un talentuoso artista piemontese dell’800 tanto da convincerlo ad acquistare: «Ho comprato questi quadri perché li ho adorati dal primo momento, ma sono stato sempre scettico sul loro reale valore. Non avevano neppure le cornici, uno di questi l’ho fatto riparare con del cartone». Chiedo alle Ferrovie dello Stato se sia ancora possibile trovare un Gauguin all’asta ma Marco Mancini che è il responsabile della comunicazione, oltre che un valente giornalista, precisa che le ferrovie da oltre 6 anni non conservano più gli oggetti che si smarriscono sopra i treni e che la competenza per il recupero è passata ai comuni mettendo così fine a un universo, quelle aste periodiche che Mancini quasi rimpiange: «E’ un mondo ormai scomparso. Erano le aste più strampalate che ci fossero: dalle stampelle ai messali fino ai Gauguin». Certo, è vero che come scrive il critico d’arte Tomaso Montanari “la madre dei Caravaggio è sempre incinta” e però qui per una volta la perseveranza batte l’incredulità, il metodo affettivo sconfigge quello scientifico che non è esente da sviste come quella che Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan presero con le teste di Modigliani confezionati e intagliate con il trapano Black & Decker da goliardici artisti con la passione della burla.

Fagioli, scrittore d’arte che appunto se ne intende, è convinto che l’arte sia un gioco ludico come in questo caso dove la chiave di volta è una monografia di Bonnard comprata in un bouquinistes: «I quadri seguono traiettorie misteriose e un giorno decidono di riapparire». Salvatore conferma quanto scriveva Federico Zeri sull’arte che è sì un lungo e faticoso esercizio, ma anche la capacità di riconoscere le maniere, quindi un allenamento dell’occhio, anzi una fortunata collazione: «Ho visto un autoritratto di Bonnard seduto su una sedia di vimini in giardino, era simile anzi uguale a quello del nostro quadro. E’ così che ho cominciato a dare un’identità alla tela». Stessa cosa hanno fatto i carabinieri del nucleo patrimonio artistico che hanno sfogliato il catalogo più completo e autorevole di Bonnard presso la Biblioteca dell’Accademia di Francia trovandone infine l’immagine.

E il Gauguin? «Anche qui sono partito dalla firma del quadro, un cagnolino stilizzato. Ho notato che nelle lettere Gauguin era solito firmarsi in questa maniera, non mi rimaneva che mettermi alla ricerca di un buon catalogo» dice Salvatore. Pure questo catalogo è un ritrovamento pari al quello delle tele: «Il catalogo più completo non stava all’università di Catania ma bensì nella biblioteca di un paese a pochi chilometri da questa casa» e quindi da questo cancello che aveva un pezzo di Louvre: «C’era la foto in bianco e nero del mio quadro, come facevo ad avere altri dubbi?». I carabinieri ribadiscono che dubbi non ce ne siano forti del parere dei critici del ministero dei Beni culturali che ne hanno assicurato la veridicità. Coppola dice che la pistola fumante è questo catalogo Wildenstein del 1964 «il più completo, un tomo enorme» dove infatti compariva opera, dimensione e titolo salvo scomparire misteriosamente nel successivo catalogo del 2001. Dunque per il Maggiore dei carabinieri questa era la migliore prova del furto che un articolo del New York Times del 7 giugno del 1970 e uno del “The Straits Times” del giorno successivo avvalorava: «Abbandonati, molto probabilmente, su un treno diretto da Parigi a Torino a causa dei controlli doganali».

Allora di chi sono i quadri? Philippe Daverio parla già di miracolo dato che la famiglia a cui nel 1970 erano state sottratte le tele si è estinta senza eredi: «I quadri sono di chi li ha acquistati in buona fede, la legge italiana è chiara». E come conferma l’avvocato della famiglia siciliana, negli archivi non esiste una denuncia, nel catalogo viene dato “solo” per scomparso: «In pratica non c’è reato, e inoltre c’è la collaborazione della famiglia». Ma Salvatore e Nicolò non possono tenerli in casa, dicono che non vogliono venderli, non sanno che farne e sembra che la soluzione migliore, almeno a sentirli, sia quella di prestarli ai galleristi che già hanno cominciato a stanarli. E però, se solo volessero potrebbero anche cederli, ma solo nel mercato italiano come vuole la norma che blocca il traffico d’arte e che ne abbassa drasticamente il valore. «All’estero il Gauguin sarebbe quotato circa 25 milioni di euro mentre il Bonnard 5 milioni. Ma trattandosi del mercato italiano le cui dimensioni sono ridotte, il prezzo si riduce di un quinto» spiega Daverio che di storie simili ne conosce tante anche se nessuna così fortunata. Domando se non si tratti di una possibile bufala che adesso anche il web denuncia in maniera divertente sul gruppo Facebook “Kazz(a)rte” ma Daverio risponde che «si tratta di tele documentate, di solito le bufale riguardano gli inediti. E poi corrisponde la tela, la provenienza è precisa, la chimica dei materiali rimanda ai due impressionisti. La certezza è garantita dalla severa catalogazione» e vuole aggiungere la morale: «Hanno ridato vita a una res nullius. Come dire, a volte l’acculturazione paga».

Salvatore è bizzarro continua a celarsi come se lui fosse l’opera, come i quadri che non vede più e che in questo momento si trovano a Roma chiusi in qualche sala del ministero. In questa casa c’è un vuoto che solo un ritorno può compensare, ed è giusto che queste tele tornino qui dove erano amati prima ancora di conoscere il loro reale valore. Ma è anche vero che l’arte non si nasconde come ha insegnato Dante che nella sua Divina Commedia ci ricorda come non bastarono le mura inespugnabili di Troia a proteggere la statua del Palladio rubata da Diomede, primo tombarolo dell’antichità: «Piangevisi entro l’arte perchè, morta, Deidamia/ ancor si duole d’Achille e del Palladio pena vi si porta». L’arte non è torbida ed è evidente che non si possono occultare due capolavori se non aprendo le porte, se non rivelando l’identità. Adesso chiamate i carabinieri, mobilitate la critica, proteggete Salvatore vero intendente della storia dell’arte italiana! Dopo aver ritrovato Gauguin e Bonnard in Sicilia rischia di esserci un altro capolavoro felicemente smarrito: è questa famiglia. Olio su tela, famiglia con quadro…

Carmelo Caruso

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