Interpellati ogni giorno da governo, Regioni, aziende, media, i «super esperti» dettano la linea. Dicendo tutto e il contrario di tutto, rigorosamente in diretta.
Certo, nessuno di loro ha violato il lockdown per vedere la burrosa amante. Il professor Neil Ferguson prima ha convinto il premier inglese, Boris Johnson, a blindare il Paese. Poi è corso tra le braccia della bella Antonia, in spregio all’apocalittico pericolo da lui stesso profetizzato. Sia chiaro: la prodezza del britannico resta inarrivabile. Ma pure i virologi italiani, a suon di interviste e ammonimenti, sono caduti in sbalorditive contraddizioni. Dovevano essere i pastori che guidano il gregge tra le perigliose lande del coronavirus. Sono diventati, complice formidabile vanità, arcitaliani d’assalto. Tanto da meritare, in onore all’acquisita notorietà, un simil album Panini spopolante sui social. Ovvero, la raccolta completa di figurine con i volti dei «cosiddetti esperti». Così almeno li ha definiti, con un lampo autocritico, Massimo Galli, primario dell’Ospedale Sacco di Milano: «Perché di questo virus ne sappiamo veramente poco e molti di noi ne hanno parlato anche a sproposito».
Eppure, quasi tutti sono ormai imprescindibili superconsulenti. Governo, regioni, aziende: ovunque, i professori dettano la linea. A partire, ovviamente, da Palazzo Chigi. Il già tentennante premier Conte non muove foglia che il comitato tecnico-scientifico non voglia. Clausure, mascherine, tamponi, app, Fase 2 e Fase 3: ogni decisione è demandato all’altrui sapienza. La democrazia, ai tempi della pandemia, s’è trasformata in tecnocrazia. Quest’esercito di onnipresenti virologi ha però dimostrato l’arcinoto: la medicina non è una scienza esatta. Negli ultimi tre mesi, hanno detto tutto e il contrario di tutto. I giornali li spingono alla divinazione. Loro non si sottraggono. Le tv, intanto, li accolgono da mane a sera. Solo Galli, nella settimana tra il 29 aprile e il 6 maggio, è stato ospite in sette trasmissioni d’approfondimento sui canali nazionali. Ha parlato, in totale, per ben 58 minuti: molto più di qualsiasi leader politico italiano. Ma il vero exploit arriva tra il 14 e il 15 aprile: in nemmeno 24 ore, appare in quattro programmi. Dove discetta per 48 minuti. Rai, Mediaset, La7: non esiste talk show del piccolo schermo che non l’abbia visto protagonista.
Non è l’unico, chiaramente. E anche altrove le cose vanno così. Il collega americano Anthony Fauci, che guida la task force del presidente Trump, s’è guadagnato addirittura l’imitazione di Brad Pitt nel satirico Saturday Night Live. Però il vecchio Tony non perde occasione per attaccare The Donald. Invece le mediastar italiane si accaniscono, al massimo, sugli indisciplinati connazionali. Mai sul prode Giuseppi. Né sugli abbagli della politica. Che, del resto, molti di loro influenzano direttamente. A partire da Walter Ricciardi: comandante in capo dei consulenti del ministero della Salute e unico italiano nel board dell’Oms per volontà dell’ex premier, Paolo Gentiloni. A fine febbraio, Ricciardi si scaglia contro i test di massa per gli asintomatici a Vo’ Euganeo: «Un errore» che ha portato «confusione e allarme sociale». Nel paesino del padovano lo screening di massa è però salvifico. E il 22 marzo, dopo che l’Italia ha superato la Cina per numero di contagi, Ricciardi rettifica. Tamponi anche a chi non ha i sintomi: «Partiamo dalla prossima settimana».
E le mascherine? «Alle persone sane non servono a niente» assicura il professore appena insediato. Ma persino il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, già lo scorso 3 febbraio garantiva: «L’uso delle mascherine in una persona sana non ha particolare utilità». Tanto che, ancora il 28 marzo, l’Iss scrive alle strutture sanitarie: non è necessario fornire dispositivi di protezione «ai pazienti senza sintomi respiratori». Avanti tutta. Fino al testacoda: «Le mascherine vanno usate pure all’aperto, se manca la distanza necessaria». Giovanni Rezza, altro nome tutelare dell’Istituto e stella del comitato tecnico-scientifico di Palazzo Chigi, intanto ragguaglia: «Vanno bene anche fazzoletti e sciarpe: l’importante è limitare diffusione di goccioline. Mascherine Ffp2 e Ffp3 vanno date al personale sanitario». Avvertimento che nutre il sospetto: non è che venivano sconsigliate solo perché la protezione civile, e dunque il governo, non era in grado di garantirle nemmeno ai medici?
Non ha invece ricevuto nessun incarico dai giallorossi Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica al Sacco di Milano. In compenso, diletta da settimane i lettori dell’ultragovernativo Fatto quotidiano con la rubrica Antivirus. Onore guadagnato il 23 febbraio, quando scrive su Facebook: «È una follia questa emergenza. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale». E in un’intervista a Repubblica, rincara: «C’è un bombardamento di notizie che fomentano la paura, c’è stato un lavaggio del cervello collettivo. Sembra che siamo in guerra…». La resa dei conti, lascia intendere, arriverà presto. Quel giorno, promette, indosserà il suo trofeo: «Quando questo sarà finito, farò un ciondolo d’oro a forma di coronavirus». Almeno quest’estate, però, non potrà indossarlo. Quanto a ottimismo, ha rivaleggiato con lei solo l’infettivologo Matteo Bassetti, primario al San Martino di Genova e altra presenza fissa in tv: «Dobbiamo essere tranquillizzanti. Il coronavirus è più simile all’influenza che alla pesta bubbonica» assicura il 26 febbraio. E aggiunge: «In Italia non c’è neppure un paziente morto per il coronavirus».
Perfino l’acclamata Ilaria Capua all’epoca minimizza: «Bisogna comportarsi come se fosse in arrivo una brutta influenza» spiega il 24 febbraio. «In tutte le specie animali, e l’uomo ne fa parte, i coronavirus comportano forme respiratorie lievi. Non abbiamo elementi per essere preoccupati. Credo che ci sia un allarme mediatico non giustificato». Già deputata con Mario Monti, adesso Capua verga meno rassicuranti editoriali per il Corriere della sera, dove scrive l’ex premier e attuale senatore a vita che la volle in parlamento. Anche in tv, Capua è ormai indifferibile opinionista di Giovanni Floris a DiMartedì, su La 7. Insomma, si resta nella stessa famiglia mediatica: quella di Urbano Cairo.
Avrebbe invece un’esclusiva con la tv di Stato il più vanitoso della truppa: Roberto Burioni. Dalla comoda poltroncina di Che tempo che fa, su Rai 2, comincia a dispensare inconfutabili verità il 2 febbraio scorso: «In Italia il rischio è zero. Il virus non circola. Questo non avviene per caso, ma perché si stanno prendendo delle precauzioni». Burioni, all’epoca, si burla pure di chi indossa le mascherine per scongiurare il virus: «Più facile essere colpiti da un fulmine». E il 18 febbraio 2020, mentre si scatena l’assalto ai supermercati, firma l’appello del Patto trasversale per la Scienza, fondato assieme al patologo Guido Silvestri: «Il livello elevato di attenzione da parte delle autorità sanitarie non giustifica l’allarmismo nella popolazione italiana che si è registrato negli ultimi giorni». Poco dopo, si ravvede. Per diventare l’oltranzista a oltranza. Comincia a scuoiare verbalmente chiunque accenni a derubricare. Colleghi compresi. Come la Gismondo: «Temo che la signora del Sacco abbia lavorato troppo nelle ultime ore, dovrebbe riposarsi». Poi passa a Giulio Tarro: «Se lui è un virologo da Nobel, io sono miss Italia». Infine, tenta di rosolare Giuseppe De Donno, primario di pneumologia a Mantova che sperimenta la cura al plasma sui malati di coronavirus. Polemiche che, oltre a rinvigorire la sua egolatria, l’hanno trasformato in un temerario vendicatore. Così, il professore del San Raffaele è il demiurgo scelto da alcune tra le più importanti aziende italiane: Ferrari, Fca e Gucci. Consulente per la sicurezza nella fase della riapertura: il nome di Burioni, ormai, è una garanzia.
Suo fido alleato è Pier Luigi Lopalco, professore di Igiene generale a Pisa. Un altro che ama menar fendenti ai miscredenti. Appreso del contagio del premier inglese, twitta: «La fortuna è cieca, ma il virus ci vede benissimo». Molti osano eccepire. Ma Burioni per fortuna è lì, pronto a difendere lo stimato collega dai «falliti idioti malmostosi». Intanto, Lopalco continua a guadagnare visibilità mediatica. Complice anche il cruciale ruolo di coordinatore della task force in Puglia, la regione del Sud più colpita dal coronavirus, su indicazione del governatore Michele Emiliano. Anche qui, è l’epidemiologo a decidere sul da farsi. Tanto da aver ingaggiato un duello a distanza con Raffaele Fitto, probabile candidato presidente del centrodestra alle prossime Regionali. Con l’europarlamentare che insinua: «Ha messo in evidenza doti più da politico che da scienziato».
Al capezzale del Pio Albergo Trivulzio di Milano è stato invece chiamato Fabrizio Pregliasco. Dopo l’inchiesta sugli anziani morti nella Rsa, Regione e Comune l’hanno nominato coordinatore scientifico. Pure lui, nato pompiere e finito incendiario. Il 4 febbraio spiega: «I cittadini non devono avere paura di incontrare il coronavirus perché non sta circolando». Il 25 febbraio delucida: «La malattia provocata dal nuovo coronavirus è banale e non è contagiosissima, come possono esserlo morbillo o varicella. Piuttosto, è comparabile all’influenza». Mentre la mascherina è «utile solo per chi è ammalato». Il 2 aprile riformula: «Se usiamo le mascherine riduciamo il rischio del contagio». Il 16 aprile rincara: «Andremo al mare con la mascherina». Il 4 maggio suggella: «Temo che fra un anno dovremo ancora tenerle».
Certo, nessuno conosceva il coronavirus. Gli inciampi sono stati quasi consequenziali. Peccato che, tra una discesa ardita e una risalita, gli esperti non si siano mai tirati indietro davanti a taccuini, telecamere e lusinghe politiche. E hanno continuato a guidare governi e cittadini, direttamente o meno. «Se c’è una cosa per cui sono infuriato con me stesso è di essere stato troppo ottimista» ammette Galli. Ma la sua è l’unica ammenda. Così, tre mesi dopo averli sentiti pontificare sempre e ovunque, viene in mente l’inclemente storiella. Quella del tizio che entra in un negozio di animali per comprare un pappagallo. Il negoziante avverte: «Ne ho solo tre». Il primo, informa, sa programmare un computer e costa 5 mila euro. Il secondo può anche progettarli, difatti ha un prezzo più alto: 25 mila euro. Per il terzo, invece, ci vogliono 50 mila euro. «E questo cos’ha di speciale?» chiede il tizio. Il negoziante alza le spalle: «Non lo so, ma gli altri due lo chiamano professore». (ha collaborato Sarah Scorpati)
