Zwei von Millionen von Sternen
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Zwei von Millionen von Sternen

Sòura Casteldélc u i è una cisa sénza sufétt e i méur datònda i tén tla brazèda un zris ch'l'è criséu sòura e' sulèr e i rèm i tòcca e' zil.
D'avróil u i è la fiuróida e l'aria biènca la còula zò da l'èlbar e la sguélla in fònd a la vala, pu l'aróiva i frótt ch'u si magna i méral e i gazótt selvàtich; intènt al fòi al dvénta ròssi, e un po' a la vólta al casca a tèsta d'inzò.
Se qualcadéun u s'afàza tra chi méur sla vòia d'una grèzia e u i è una fòia che propria at che mumént la s staca da e' rèm, l'è sègn che da d'in èlt l'avrà una rispòsta bóna.
Tarkovskij l'è capitè 'd novèmbar e l'éva bsògn da fè una dmanda gròsa, mo al fòi agli era za caschi tótti e al féva da lèt ma dò pigri ch'al durméva*.
Tonino Guerra, Al fòi dal zris, da Il libro delle chiese abbandonate.
Se le persone fossero rette, se ne dedurrebbe che i rapporti umani potrebbero essere sintetizzati in tre modi: o si tratta di rette parallele, che per definizione non si incontrano mai (eppure, evidentemente, si somigliano, o no? Altrimenti perché dovrebbero comportarsi allo stesso modo? Ma forse poi dovremmo prendere in gran considerazione la distanza); o sono due rette sovrapposte, coincidenti, e dunque, in termini non umanistici, una cosa sola; oppure, per qualsiasi altra retta, dovremmo concludere che si incontrano in un solo punto e poi si allontanano per sempre.
Non credo, in effetti, che questa delle rette sia una metafora granché utile o azzeccata, in generale, se si parla di persone: che in fin dei conti si incontrano e reincontrano più volte, si incastrano, danzano, traballano l'uno di fianco all'altro più volte; è esperienza comune. Ma per raccontare di Andrej Arsen'evič Tarkovskij e Tonino Guerra, mi pare, l'immagine delle due rette è perfetta e mi piace molto. Non dobbiamo d'altronde per forza pensare a due linee opposte, perpendicolari: solo a due rette, due esistenze, fuor di metafora, diverse. Due mondi che potevano non incontrarsi, però si sono incontrati.
Ho visto in questi giorni (ecco il motivo di questo post) Tempo di viaggio, il documentario che verte, in teoria, sulla preparazione di Nostalghia, il film "italiano" di Tarkovskij, di cui Guerra fu sceneggiatore. In realtà sono loro due che parlano, in italiano e in russo, a casa di Guerra, o girano l'Italia in cerca di luoghi adatti al film; ma sfugge comunque, in un'ora di girato concentrato sui due, che cosa in effetti li leghi, o meglio cosa abbiano in comune. E anche spulciando le biografie dei due, o sfogliando le rispettive produzioni artistiche, il mistero resta fitto.
In realtà, più probabilmente, i due, come due rette, hanno in comune solo il punto in cui si trovano: sono vicini, in quel momento e in quel punto precisi, ma vanno in direzioni opposte. Guerra è un poeta, Tarkovskij il figlio di un poeta; Tarkovskij è l'uomo degli spazi immensi, reali e metafisici, Guerra è il figlio di un mondo piccolo; Tarkovskij viene da un paese che ha distrutto le proprie chiese, senza riuscire a cancellarle, Guerra da un luogo in cui delle chiese ci si ricorda solo quando sono ormai abbandonate e vuote. I personaggi di Tonino Guerra abbracciano le campane, perché amano senza credere; quelli di Tarkovskij le costruiscono senza saperlo fare, perché credono senza amare. Guerra è un italiano che va in Russia; Tarkovskij un russo che fugge in Italia...
Quando il regista russo entra nel mondo di Guerra, in fondo, non lo capisce: è come se fosse sempre novembre e se il ciliegio fosse spoglio, e il cielo sordo. Tempo di Viaggio, che è forse anche il racconto di un'amicizia, inizia con Guerra che legge a Tarkovskij una poesia in italiano, che suona debole e poco ispirata: l'ha tradotta perché lui possa capirla. Ma finisce con Tarkovskij che chiede la stessa poesia, però in dialetto romagnolo; e questo è forse tutto quello che c'è da dire sul film, sul rapporto dei due, e su due rette che hanno avuto la ventura di incontrarsi venendo da mondi distanti e viaggiando verso mete lontane, però si piacciono e si fermano un momento a scrutarsi, senza potersi comprendere.
*Sopra Casteldelci c'è una chiesa senza tetto e i muri tengono tra le braccia un ciliegio cresciuto sul pavimento e coi rami che toccano il cielo.
In aprile c'è la fioritura e l'aria bianca scivola dall'albero fino in fondo alla valle, poi arrivano i frutti e si li mangiano i merli e gli uccelli selvatici; intanto le foglie diventano rosse e un po' alla volta cadono a testa in giù.
Se qualcuno si affaccia tra quei muri col desiderio di chiedere una grazia e c'è una foglia che cade proprio in quel momento, è segno che dall'alto avrà una risposta buona.
Tarkovskij è capitato a novembre e aveva bisogno di fare una domanda grossa, ma le foglie erano già cadute tutte e facevano da letto a due pecore che dormivano (traduzione di Tonino Guerra).

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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