L’uomo che ha reso la Cina un regime dalle ambizioni globali, Xi Jinping, è a un passo dalla presidenza a vita. Lo consacrerà il XX Congresso del Partito comunista, che si apre il 16 ottobre. Anche se, nonostante i successi e i molti proclami, il Paese patisce crisi «sotterranee» che offuscano la grande marcia verso il futuro.
Se Mao Zedong è passato alla Storia come il «Grande Timoniere» della Cina comunista, quale titolo merita il suo successore Xi Jinping? Come verrà ricordato l’uomo più potente nei 73 anni della Repubblica popolare, capace com’è di un controllo assoluto sullo Stato, sulla burocrazia e sull’esercito, ma anche di una forza militare e politica al cui confronto quella di Mao era ben povera cosa? Il controllo sulla Cina da parte di Xi, oggi, non ha contraltari. È un dittatore assoluto, un «Immenso Timoniere» che tiene in pugno il suo popolo grazie a occhi tecnologici capaci di entrare nel profondo delle coscienze di un miliardo e 400 mila sudditi. E dal 16 ottobre il suo potere rischia di non avere più nemmeno limiti temporali: quel giorno infatti si aprirà il ventesimo congresso del Partito comunista cinese, e tutti scommettono che Xi otterrà il terzo mandato quinquennale. Cioè l’ultima finzione scenica prima dell’inevitabile mandato a vita.
Segretario del Partito dal 2012 e presidente della Repubblica popolare dal 2013, Xi ha 69 anni e ancora una lunga strada davanti a sé. Nei dieci che ha vissuto al vertice del Paese ha cambiato rotta alla Cina e le ha imposto una marcia forzata che l’ha portata a picchi mai visti di aggressività produttiva e commerciale, tecnologica e militare. Grazie all’insipienza dell’America di Joe Biden, Xi è riuscito anche nell’impresa di trascinare la Russia nella sfera d’influenza cinese, un risultato che dai tempi di Richard Nixon, per mezzo secolo, i governi americani avevano cercato di scongiurare. È vero che da sei mesi la guerra dichiarata all’Ucraina da Vladimir Putin sta creando qualche difficoltà anche a Xi, come hanno mostrato le divergenze emerse tra i due alla metà di settembre, nel vertice di Samarcanda. Ma nessuno può dimenticare che il 4 febbraio, tre settimane prima dell’invasione, Cina e Russia hanno firmato un’alleanza «senza limiti», un patto strategico in cui l’Occidente e la Nato vengono dipinte come entità in declino, e dove i due Stati si promettono imperituro sostegno, a difesa dei reciproci interessi. Non per nulla, russi e cinesi sono impegnati in continue esercitazioni militari congiunte, e la loro intesa in quel campo sta crescendo.
Quando Xi emergerà dal lavacro del ventesimo congresso, quindi, è assai probabile che la sua filosofia espansionistica ne uscirà rafforzata. Con qualche rischio in più per il mondo. Le mire di Pechino su Taiwan, che negli ultimi anni sono aumentate e dopo la visita di Nancy Pelosi, ai primi d’agosto, hanno dato il la a continue esercitazioni militari, di fatto un blocco navale attorno all’isola, potrebbero innescare pericolosi giochi di guerra con la contraerea di Taipei e con la Marina americana nel Pacifico. La situazione potrebbe peggiorare anche verso l’India. Gli eserciti dei due Stati si confrontano lungo il confine conteso della regione himalayana del Ladakh dal giugno 2020, quando un attacco cinese causò la morte di 20 soldati indiani e la conquista di 38 mila chilometri quadrati ricchi di strategici corsi d’acqua. Terrorizzato dall’avvicinamento tra Pechino e Mosca, di cui è alleato tanto da non avere mai condannato l’invasione dell’Ucraina, il premier indiano Narendra Modi cerca di farsi forte dei buoni rapporti con la Casa Bianca. Ma intanto l’accerchiamento di Xi continua a crescere, da ultimo con la costruzione sull’Oceano indiano di quattro grandi porti battenti bandiera rossa in Pakistan, Sri Lanka, Bangladesh e Myanmar. E le ambizioni imperialiste della Cina su tutta l’Asia aumentano di giorno in giorno.
La seconda stretta di Xi riguarderà il campo interno. L’Immenso Timoniere finirà d’impadronirsi del Partito, massacrando quanto resta dei potenziali avversari. Xi, che in gioventù ha studiato in profondità la crisi del comunismo sovietico, ha compreso bene che la sconfitta di quel sistema era iniziata dalle debolezze della struttura partitica e dottrinaria al suo vertice. Per questo, fin dal dicembre 2012, ha scatenato una campagna contro la corruzione: in meno di dieci anni, l’operazione «Mani Pulite» di Xi ha messo sotto inchiesta 393 alti dirigenti e 631mila funzionari di Partito. Con le armi dei processi e della gogna, Xi ha eliminato soprattutto gli eredi del suo predecessore, Hu Jintao, come lui riformisti e moderati.
In cella, spesso all’ergastolo, sono finiti avversari solidi come Zhou Yongkang, già capo degli apparati di sicurezza, o come Sun Zhengcai, membro del Politburo dai poteri troppo ingombranti. Ultimo a essere cancellato, in luglio, il potente ministro della Sicurezza pubblica Sun Lijun. Intanto l’Immenso Timoniere è riuscito a creare anche un sottile culto della personalità. Da mesi Xi indossa la stessa uniforme militare di Mao. Il suo pensiero è divenuto parte integrante della Costituzione e materia di studio nelle scuole. La gente lo chiama Xi Dada, «papà», e lui ormai vive da intoccabile, infinitamente lontano, non si fa più intervistare da nessuno. A volte gli effetti di questa campagna sono grotteschi, come quando mesi fa è capitato che alcuni leader di provincia proponessero che nelle chiese cristiane l’immagine di Gesù Cristo fosse sostituita con quella del compagno Xi Jinping.
Certo, il presidente ha dimostrato fragilità anche più preoccupanti della vanità. La principale, indotta da quella che pare la patologica necessità di un pieno controllo su tutto e su tutti, è emersa tra la primavera e l’estate di quest’anno con i ripetuti e brutali confinamenti anti-Covid cui è stata costretta una trentina di città, per 300 milioni di abitanti. Davanti a numeri risibili di contagi, Xi ha obbligato a lunghi lockdown megalopoli cruciali per produzioni e commerci, come Shanghai o Shenzen. I danni economici sono stati ingenti. Costretti a casa, ridotti alla fame, molti cittadini hanno reagito con inedite e diffuse proteste.
Xi, però, non sembra imparare dai suoi errori. Da fine agosto sono bastati 153 casi positivi per segregare i 21 milioni di abitanti di Chengdu, capoluogo del Sichuan, che per la Cina è la regione chiave per la produzione di litio, fondamentale per costruire le batterie elettriche, e sede d’importanti aziende della componentistica Apple. Ora Pechino annuncia che la politica «zero-Covid» durerà fino al marzo 2023, con probabili fermate di produzioni e porti. Intanto la siccità colpisce l’agricoltura, mentre i blackout per tutta l’estate hanno bloccato a singhiozzo l’industria. Il risultato rischia di essere una frenata mai vista nella crescita cinese. A fine luglio, contraddicendo 73 anni di puntigliose previsioni semestrali sul Prodotto interno lordo, il Politburo del Partito ha annunciato che nel 2022 l’economia realizzerà «i migliori risultati possibili». Assenza di precisione forse dovuta al desiderio di non provocare imbarazzo nell’imminenza della conferma di Xi al vertice. Ma una cosa è certa: il +5,5 per cento annunciato un anno fa è impossibile. Oggi Goldman Sachs stima un Pil al 3 per cento, i giapponesi di Nomura al 2,8.
Nel secondo trimestre, del resto, l’economia è cresciuta appena dello 0,4 per cento. E Pechino affronta molti altri problemi: l’inflazione è alta, cresce il debito di famiglie, imprese e governi locali, crollano le entrate fiscali. Lo yuan perde terreno rispetto al dollaro. Il guaio peggiore, però, è il crollo del mercato immobiliare, con vendite in calo da 13 mesi consecutivi. Da due anni, per limitare la speculazione, Pechino ha imposto una stretta del credito all’edilizia. Che però ha causato crac terribili, a partire da quello del colosso Evergrande, esattamente un anno fa. E oggi il terrore del mondo è che la bolla dell’immobiliare cinese possa scoppiare. In quel caso, nella nave dell’Immenso Timoniere si aprirebbe una falla difficilmente riparabile.