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Io, controcorrente, divento mamma

Io, controcorrente, divento mamma

Ecco perché ho smesso di avere paura, alla faccia dei dati dell’Istat

La verità è che, a 34 anni, volevo provare l’ebbrezza di firmare il mio primo contratto a tempo indeterminato. Anche se il mio datore di lavoro è una ragazzina di cui finora ho intravisto i lineamenti deformati solo attraverso lo schermo di un computer.

Altro che “errore di percorso!”. Lo dico perché qualcuno, nelle mie stesse condizioni, si sente quasi in dovere di giustificarsi così. E si capisce anche perché. In Italia ogni donna che lavora è sempre stata, per la cattiva coscienza di una società profondamente ipocrita, doppiamente colpevole: di non fare figli e di farli. Se ci rinuncia viene spesso accusata da parenti e amici di coltivare fantomatiche ambizioni carrieristiche fregandose dei tassi di natalità e soprattutto della propagazione della propria specie familiare; se invece li fa diventa una sorta di traditrice agli occhi dei suoi capi, una parassita a quelli dei colleghi e un’usurpatrice secondo tutti coloro che pensano – senza poterlo confessare apertamente, ovvio – che non sia affatto giusto che ci sia qualcuno che continui a percepire un stipendio, benché ridotto, pur restando a casa in maternità.

Comunque nel mio caso non è successo per sbaglio, anche perché non si rimane mai, o quasi mai, incinta per sbaglio. Non almeno alla mia età, non nelle mie condizioni. Cioè quelle di una persona mediamente acculturata, che vive nella capitale di un Paese civilizzato, che non pratica culti religiosi e non frequenta sette.

Quindi l’ho voluta questa bambina, altroché se io e il mio compagno l’abbiamo voluta! Innanzitutto per amore, l’unico vero motore che fa muovere il mondo. E anche un po’ la sua economia. Che può sembrare una frase retorica ma che invece non lo è per niente visto che, a parte la fame, è solo l’amore che fa spostare le persone da una parte all’altra di una città, di un paese, di un continente, di un globo intero e le spinge a progettare almeno un pezzetto di futuro.

Dice, “ma perché proprio ora e non prima o non dopo?” Non prima perché prima pensavo che se anche qualcuno mi avesse voluta assumere, sicuramente non l’avrebbe fatto se mi fossi presentata al colloquio con la pancia o con prole a seguito e che se pure fosse successo mi avrebbe lasciata a casa alla scadenza del primo contratto a tempo determinato; non dopo perché ho pensato che intanto se avessi aspettato ancora che qualcuno mi assumesse a tempo indeterminato o non mi lasciasse a casa alla fine di un contratto  a scadenza o non mi licenziasse in corso con una qualsiasi scusa, non avrei mai fatto una figlia.

Infatti finora non ho mai firmato un contratto a tempo indeterminato. Per la verità non ho quasi mai firmato un contratto d’assunzione. Al massimo di collaborazione. In compenso, però, ho sempre lavorato. E parecchio. Ho fatto anche tre lavori al giorno, per poter contare su uno quando avessi perso gli altri. E pagarmi un po’ di spese, l’affitto, il mutuo, le multe. Un po’, mica tutte. Per fortuna ho sempre potuto contare su efficienti politiche di welfare. Sì, quelle di mia madre e mio padre che, con il loro amore, hanno fatto muovere il mio mondo e un po’ anche quello di Cecilia.

Dice, “vabbè, allora stai a posto così? Non hai nulla da chiedere al tuo Stato, al governo del tuo Paese?”.

Intanto prima che allo Stato, qualcosa avrei da chiederlo a chi mi sta intorno, alla tanto osannata società civile, quella che si mobilita per protestare contro le guerre che insanguinano il mondo ma che non si alza per cedermi il posto sull’autobus e si mette a guardare fuori dal finestrino per non incrociare la mia pancia sdegnata.

Con l’autobus, e il trenino, io ci vado ogni giorno a lavoro. Lavoro in centro e con la macchina – che è pure sconsigliatissimo guidare – non ci posso arrivare. Certo, avessi avuto qualche garanzia in più magari non avrei fatto, in quasi 8 mesi, 5 giorni di malattia in tutto e qualche volta me ne sarei rimasta a casa. Soprattutto nei giorni di sciopero dei mezzi pubblici o quando a Roma ci sono le manifestazioni. Peccato che avrebbe significato rimanerci quasi sempre a casa e non solo quelle volte che la ginecologa mi ordinava di starmene un po’ a riposo per far rilassare il mio utero contratto.

Ma a parte il fatto che a me piace andare a lavoro e che uno dei miei motti preferiti è sempre stato “chi si ferma è perduto” soprattutto perché non c’è mai una fine della corsa in cui qualcuno ti dà la medaglia, c’è pure che a non andarci io mi sento in colpa, e adesso che sono incinta anche di più. Non ne ho nessuna (di colpa), per carità, ma pur di non apparire menomata o insufficiente o non all’altezza dei miei colleghi, per paura di fornire una giustificazione in più a chi, un giorno o l’altro, potrebbe decidere di poter anche fare a meno di me, ho rischiato e rischio ancora.

Quindi allo Stato, al governo che ha fatto ministro una ragazza incinta, oggi ho soprattutto una cosa da chiedere e non si tratta di un posto di lavoro fisso (in fondo nemmeno quello da ministro lo è). E’ vero che poterci contare mi farebbe stare più tranquilla, soprattutto per il futuro di mia figlia che conta quanto quello di qualsiasi altro bambino con una mamma lavoratrice garantita. Ma mi basterebbe intanto che le fosse assicurato il presente, quello dentro la mia pancia, troppo spesso messo a rischio in questi mesi per dover dimostrare al mondo che diventare mamma non mi avrebbe certo reso una lavoratrice peggiore. Semmai, una donna migliore. Quella che mi sento di essere da quando con me c’è lei, la mia nuova datrice di lavoro, l’unica che non mi licenzierà mai.

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