The Escape: profumo di donna (in fuga) – La recensione
Dramma a sfondo psicologico nel film del britannico Dominic Savage dominato dalla recitazione di Gemma Artenton, moglie e madre che evade dalla famiglia
Evasione di donna, prim’ancora che di moglie e di madre, ma a queste due ultime condizioni assicurata a doppio, inestricabile filo. È la traccia che guida in termini quasi monotematici The Escape (uscita in sala il 21 giugno, durata 101’) del britannico Dominic Savage del quale si ricorda soprattutto un Love+Hate del 2005 oltre una piccola parte (da ragazzino, nel 1975) in Barry Lyndon di Stanley Kubrick. Un film silenzioso, un dramma percettivo a sfondo psicologico interamente governato dalla protagonista Tara, alla quale Gemma Artenton dà una sponda mirabile nell’interpretazione, consentendo di scavare in tutto il suo disagio.
Quel marito innamorato con eccesso di ardori ormonali
Sicché il primo treno per Parigi è alle 10.42. Il biglietto è staccato, la carta di credito fa il suo corso per 180 sterline. E Tara va nel suo destino di fuga. Lascia Londra, due figli ancora piccoli e il marito Mark (Dominic Cooper)che guadagna abbastanza bene per consentirle una vita agiata e “costringerla” a non lavorare, peraltro amandola manifestamente: anche con quegli impeti e ardori ormonali che prevedono sesso un po’ a tutte le ore, specie quelle del risveglio mattutino.
Sebbene qualche moglie afflitta da latitanze coniugali potrebbe addirittura invidiarla, Tara non ha di che gioire di quella cattività. Anzi. Preda della depressione e dell’infelicità che i sondaggi assegnano impietosamente alle madri casalinghe, pare congelata e spremuta dalla routine fino a scappare da tutto, fulminata dalla crisi di rigetto del refrain quotidiano.
La lettura rivelatrice negli arazzi de “La Dama e l’Unicorno”
Magari il sogno parigino di Tara durerà poco e un incontro estemporaneo con un uomo francese la deluderà ancora. Ma il viaggio, una volta tornata a Londra, avrà cambiato il corso della sua vita, confortato da un sogno d’arte che le reca un libro comprato da un rigattiere con le illustrazioni de La Dama e l’Unicorno: è il solenne ciclo di arazzi fiamminghi che diventa, tra le mani della protagonista, un elemento di transazione simbolica del suo vagheggiare. Sei pannelli col loro sfondo rosso, la Dama, l‘Unicorno e il Leone; nei primi cinque i sensi del gusto, l’udito, la vista, l’olfatto e il tatto, nell’ultimo l’insondabile scritta “Il mio solo desiderio”.
Una protagonista smarrita tra speranza e sconforto
Il mistero fisico del contenuto e la bellezza iconografica accompagnano questa donna smarrita nella sua quieta ovattata speranza e, allo stesso tempo, nel suo sconforto. Elementi e stati d’animo che la macchina da presa spesso in spalla, nella fotografia assorta di Laurie Rose, scorta con grande intensità visiva e prospettica; guidando, si può dire, un film fatto di sguardi, di primi e primissimi piani, di dialoghi ridotti all’osso, di acuta propensione introspettiva. Diventa così egemonica la recitazione di Gemma Artenton, a momenti inquietante e impenetrabile, dominatrice dello schermo nel quale staziona per quasi tutto il racconto con bravura discreta e ponderata.