Paesaggi sconfinati, grandiose montagne da scalare seguendo l’asfalto, piccole città fantasma dove resistono le memorie di un tempo passato. Road trip nel lato meno ovvio degli Usa, tra cowboy in erba, rodei e i riti della vita da ranch.
Per la maggior parte sono ragazzini dallo sguardo furbo e la faccia pulita, l’antitesi del luogo comune con i baffoni folti, la barba ispida e le rughe scavate dal sole. I nuovi cowboy hanno però, come da stereotipo, il cappello a tesa larga e gli stivaloni infangati, oltre alle protezioni sulla schiena per attutire le continue cadute. Le mani sono colline di calli, pianure di cicatrici: «Se cerchi il mondo reale, questo è il mondo reale» scandisce fiero Monte Downare, 19 anni, un attimo dopo essere rimasto aggrappato a un paio di tori e cavalli che provavano, imbestialiti, a levarselo di torno. Siamo a Encampment, a 220 chilometri dalla capitale Cheyenne. Un luogo che, come suggerisce il nome, ha più le sembianze di un accampamento permanente che quelle di un paese.
Monte, come i suoi coetanei, l’arte del rodeo l’ha perfezionata a scuola. Mentre da noi l’educazione fisica spazia dal basket alla pallavolo, in Wyoming prevede l’equilibrismo su animali bizzosi: «Ha senso per mantenere una tradizione, per sviluppare un’etica del lavoro. Per capire come funziona la natura» prosegue il giovane cowboy, che raccoglie l’eredità del padre, tra entusiasmo e necessità: «Sono cresciuto così. Faccio quello che avrei dovuto fare». D’altronde, fatta eccezione per questi popolati raduni che prevedono, come altre discipline, l’abilità nel segare un tronco o colpire un bersaglio con un’ascia, lo Stato meno popoloso degli Usa è una prateria di campi, una distesa d’isolata, lenta, affascinante immensità.
È un territorio che vive della terra, di pascolo e di mandrie. Affinché l’economia rimanga sostenibile, la figura del cowboy non può scomparire: non è una deriva romantica, regge da un punto di vista operativo. È ancora l’America di una volta, così come l’aveva sognata Abramo Lincoln, com’era prima di arroccarsi nei grattacieli ed esportare dappertutto la cultura del consumo. È un trionfo di spazio, di tempo, di libertà, che travolge e conquista il viaggiatore di passaggio, scosso dall’estrema gentilezza di chiunque. Qui, la comunità, seppure rarefatta (lo Stato conta poco più di 500 mila abitanti su un territorio di oltre 250 mila chilometri quadrati), diventa una forma di sussistenza, di aiuto spontaneo e reciproco. Senza sfociare nell’ingenuità: il culto delle armi, la difesa della proprietà privata, sono considerati diritti inalienabili; Dio e Trump valgono come culti paritetici, osannati nei cartelli esposti davanti alle villette.
Guidando per quasi duemila chilometri lungo le strade di questo nuovo selvaggio West a ridosso di Utah e Colorado, ci si ritrova travolti da sobbalzi degni di un rodeo. Del cuore e dell’auto, spinta a inerpicarsi tra pendici capolavoro, come le Snowy Range mountains: d’estate, dalla valle alla cima l’escursione termica è di 30 gradi. Giù il sole picchia feroce, su nevica e si trema. A compensare i brividi, una sequenza di commoventi laghi ghiacciati, sinfonie di alberi puntuti, sentieri in cui è obbligatorio fare attenzione agli orsi: «Il trucco è agitarsi e sembrare molto grossi» spiega imperturbabile Wyatt, 21 anni, mentre prova a pescare salmoni e trote arcobaleno, fallendo miseramente nel tentativo di tranquillizzarci.
A proposito di fauna locale, lungo la Pilot Butte Wild Horse Scenic Loop i protagonisti sono i cavalli allo stato brado, che trottano indisturbati in un panorama di canyon; gli uccelli spadroneggiano lungo la Flaming Gorge Scenic Byway, dove occorre fare attenzione alle deviazioni a caccia di paesaggi, per non rimanere rovinosamente impantanati con l’automobile, assaliti da sciami di zanzare assetate. Storia vera, per fortuna a lieto fine. Il Wyoming è lo Stato ideale per un classico road trip, con l’inconveniente delle troppe soste per il continuo stupore. La strada stessa è la prima attrattiva, desertica e un po’ guasta, mentre curva in salita prima di sparire verso l’infinito.
Ci sono le «ghost town», le cittadine fantasma, dove l’abbandono e la desolazione diventano poesia. Come Centennial, con i latrati dei cani in sottofondo e un’auto della polizia dai vetri rotti sprofondata nell’erba. O la meno funerea Superior, che ancora conta 250 anime: briciole rispetto alle migliaia dell’era delle miniere della Union Pacific, poi chiuse, provocando una migrazione di massa. Delle persone e delle case, trasportate su ruote nella più vicina e meno depressa Rock Springs. «Non voglio andare da nessun’altra parte, faccio pochi passi e sono in mezzo alla natura. Questo è il luogo nel quale sono nata, è il posto al quale appartengo» osserva Francis, una dei residenti. È tra i discendenti del folto manipolo di italiani che hanno lasciato lo Stivale per cercare fortuna negli Stati Uniti, trovandola a Superior, finché è durata. Oggi le loro memorie rivivono nei racconti di un gruppetto di nostalgici anziani e in un piccolo museo allestito nel municipio locale.
L’intero Stato è campagna e montagna, le cittadine sono abbastanza dimenticabili. Fa eccezione Laramie, piacevole centro universitario, con la sua street art variegata, una casa-museo dedicata al suffragio femminile, un’esibizione della ferrovia che fu, al momento ridotta al traffico merci in convogli chilometrici. C’è pure un ben tenuto sito storico in quella che era una prigione di fine Ottocento, decisamente meno inquietante del penitenziario di Rawlins, il cui unico merito è coincidere con il nome di uno dei protagonisti di Cavalli selvaggi, l’epico romanzo di Cormac McCarthy, che ha parecchio in comune con le atmosfere superbe del Wyoming. Il cibo è prepotentemente a base di carne, gli hamburger sono goduriosi e squisiti com’è norma Oltreoceano, tra le deviazioni gastronomiche ci s’imbatte nel bisonte (arduamente digeribile) e nel cactus fritto (che sa, banalmente, di patatine). La frutta si rivela irreperibile, se ordinate un’insalata non riusciranno a non cospargerla di pancetta e salsine ipercaloriche.
Tra le attività, la preferita è improvvisarsi cowboy, senza doverlo studiare a scuola. La scorciatoia si trova soggiornando in un ranch, come il Vee Bar tra Centennial e Laramie, l’unico con accenni di lusso in un’offerta d’ospitalità in generale essenziale, per non dire spartana. Indosserete cappelli e stivali per sellare destrieri, metterete alla prova la vostra onestà nel saloon intitolato a John Wayne, dove ci si serve in autonomia e si segna il drink su un foglio. Si pagherà il totale, immalinconiti, il giorno della partenza. Il Wyoming è così unico da arrivare a smentire un altro classico della letteratura western, Lonesome Dove di Larry McMurtry: se il libro era stato scritto con l’intento di celebrare e chiudere un’epoca, questo Stato poco abitato dimostra che lo spirito della frontiera non è andato perduto. Si cavalca comunque verso il tramonto dopo un rodeo, trainati dai cavalli di un’auto; ci si meraviglia ancora per una natura ammaliante, specie quando domina incontrastata ogni frammento d’orizzonte. Ci si sente piccoli perché la libertà rende umili gli uomini e grande la terra.