La maggiore riserva idrica del pianeta dopo quelle polari, già ridotta dal riscaldamento globale, è al centro di crescenti tensioni tra Cina e India e altri Paesi dell’Asia meridionale. Dal controllo dei confini e dei grandi fiumi che hanno origine in quest’area montuosa dipende il futuro di due miliardi di persone.
Il ghiacciaio di Siachen è uno dei più grandi sul pianeta al di fuori delle regioni polari. Si trova sulla cima dei monti del Karakorum, parte della catena montuosa dell’Himalaya, a un’altezza compresa tra sei e tre chilometri sul livello del mare. È anche il campo di battaglia più alto del mondo: dal 1984 al 2003 India e Pakistan se lo sono conteso con le armi, con la vittoria andata alla prima.
Oggi restano schierati consistenti contingenti militari che continuano a registrare vittime tra le proprie fila: il nemico questa volta sono le valanghe. Una minaccia sempre più frequente per via dello scioglimento accelerato del Siachen.
Definiti il terzo polo, perché ospitano la più grande quantità di ghiaccio al mondo dopo Artide e Antartide, i ghiacciai dell’Himalaya si stanno liquefacendo a velocità eccezionale a causa dell’emergenza climatica. Un collasso che potrebbe essere ormai troppo tardi invertire: una ricerca del Centro internazionale per lo sviluppo integrato della montagna ha stimato che, anche se riuscissimo a contenere l’aumento della temperatura globale a 1,5°C entro fine secolo, un terzo delle masse glaciali del tetto del mondo andrà comunque perduto per sempre.
Il fenomeno è carico di conseguenze gravi non solo per la regione, dove la siccità già brucia campi, pascoli e foreste, ma per tutta l’Asia orientale, la regione più densamente popolata del pianeta. I ghiacciai himalayani alimentano grandi corsi d’acqua come l’Indo, il Gange, il Mekong e il Fiume Giallo, da cui dipendono due miliardi di persone per avere acqua in casa e cibo. La competizione per la risorsa liquida rischia di essere la scintilla in grado di far esplodere le tensioni di cui è già saturo quell’angolo di mondo. A partire dalla sete smodata del Dragone.
La Cina ospita circa il 20% della popolazione mondiale ma possiede solo il 7% delle riserve d’acqua dolce, peraltro gravemente compromesse dalla crescita selvaggia dell’economia. Più di metà dei suoi corsi d’acqua sono spariti in appena due decenni, prosciugati per sostenere l’aumento di popolazione e produzione. Quelli che rimangono sono spesso ridotti a canali di scolo: un quarto dei fiumi cinesi che ancora scorrono è così inquinato da non poter essere usato nemmeno per irrigare i campi o nelle fabbriche. Inutile ricorrere alle falde acquifere, otto su dieci sono altrettanto contaminate.
La mancanza d’acqua si fa sentire soprattutto nelle regioni settentrionali del Paese, che versano in condizioni di siccità peggiori di quelle che si registrano in Medio Oriente. Pechino è così costretta ad alleviare il problema convogliandola via acquedotto da altre aree della Cina. Una fonte ancora «potabile» cui abbeverarsi sono proprio le vette himalayane, dove la Repubblica popolare controlla molte sorgenti di fiumi transfrontalieri.
Come il Brahmaputra, da cui dipende la sussistenza di milioni di agricoltori in India e Bangladesh. Pechino sta costruendo una grande diga a monte che impensierisce non poco i suoi vicini. Per più di una buona ragione, tra cui l’aumento del rischio di inondazioni e il depauperamento dei sedimenti fertili portati a sud dalle acque. Inoltre, sebbene la Cina abbia dichiarato che il flusso del fiume non sarà deviato, si rincorrono gli allarmi su un canale sotterraneo con cui invece manderebbe l’oro blu a Nord, nella regione dello Xinjiang in desertificazione.
Delhi teme anche che Pechino trasformi la diga in un enorme rubinetto da usare come arma di ricatto. Eventualità non certo paranoica considerati i rapporti tesi tra le due superpotenze, che a vecchi dissapori sommano ora recenti screzi proprio sui confini himalayani. Dopo aver combattuto una guerra ad alta quota nel 1962, vinta dai soldati di Mao che non se ne volle però approfittare, la Tigre e il Dragone sono riusciti a mantenere una tregua traballante ma duratura.
Per 42 anni lungo la linea di contatto non si è sparato più un colpo. Fino a una serie di scontri cominciati nella primavera del 2020 e culminati il 15 giugno, quando centinaia di soldati delle due fazioni si sono affrontati a calci, pugni, sassate e bastonate, con diverse vittime colpite a morte o precipitate in crepacci e torrenti a causa del buio. Nel settembre scorso hanno iniziato a fischiare i primi proiettili, portando i due rivali a un passo dallo scontro aperto. Sebbene la crisi sia fortunosamente rientrata tramite l’intervento della diplomazia, è sintomo di una rinnovata e crescente tensione nel rapporto sino-indiano.
«La dinamica tra India e Cina è in fortissima evoluzione e avrà grandi sviluppi nei prossimi anni. Le contese con Delhi servono a Pechino per capire quanto può spingersi oltre prima di provocare una seria reazione internazionale. Ci sono vari territori indiani di confine che la Cina rivendica come propri, tra cui l’intero stato dell’Arunachal Pradesh. Al momento le due potenze sono concentrate sul posizionamento delle proprie forze e sullo scambio di avvertimenti, ma la potenzialità che si possa verificare uno scontro è grande», dice Stefania Benaglia, ricercatrice associata presso il «think tank» Ceps (Center for european policy studies).
A complicare ulteriormente gli equilibri regionali c’è l’intreccio con lo scontro pluridecennale tra India e Pakistan, alleato storico di Pechino, per il controllo del Kashmir. Dove è Delhi a poter utilizzare l’«idropolitica» a proprio vantaggio. L’India controlla infatti l’alto corso dell’Indo, da cui di fatto dipende l’80% dell’approvvigionamento idrico del suo vicino. La gestione congiunta delle acque del fiume, regolata da un trattato del 1960, è finora sopravvissuta anche alle guerre tra i due Stati. Che però oggi ci litigano sopra, con Islamabad che non vede di buon occhio le dighe costruite a monte dagli indiani e Delhi che ritiene i termini del trattato troppo favorevoli al vicino. Nuovi round di negoziati lo scorso anno hanno tenuto in piedi l’accordo. Per ora.
Anche più a Oriente le acque che scendono dall’Himalaya sono agitate. A partire dal 1995, la Cina ha sbarrato il corso alto del Mekong con 11 dighe idroelettriche. La strozzatura del flusso d’acqua che ne deriva ha conseguenze drammatiche per i Paesi indocinesi più a valle, dove dipendono dal fiume 60 milioni di persone tra Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam. Che accusano l’ingombrante vicino di ricattarli con le crisi idriche per costringerli a maggior compiacenza. Soprattutto nel caso di Hanoi, con cui Pechino ha relazioni difficili da decenni, aggravati di recente dalla competizione spasmodica per gli atolli strategici del Mar Cinese meridionale.
Rivolgendo lo sguardo entro i confini nazionali, sebbene i rapporti con i nostri vicini siano sicuramente meno problematici faremmo comunque bene a preoccuparci anche dei ghiacciai italiani. Legambiente e il Comitato glaciologico italiano hanno stimato che nell’ultimo secolo abbiano dimezzato la propria area e che per entro trent’anni potrebbero sparire tutti quelli sotto quota 3.500 metri.
Peggiore la situazione sugli Appennini, dove l’unico ghiacciaio, quello del Calderone in Abruzzo, è ormai agonizzante. Soluzioni tecniche come coprire la superficie ghiacciata con enormi teli isolanti, come ad esempio al ghiacciaio del Rodano in Svizzera, non potranno essere sufficienti sul lungo periodo. Contrastare l’emergenza climatica è l’unica via per non rimanere a bocca asciutta.
