Un raffinato volume edito da Franco Maria Ricci ripercorre gli itinerari classici europei che i colti aristocratici facevano tra gli anni Quaranta del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, alla ricerca di frammenti di storia e di antichi fasti. Il libro, che pur contiene un’antologia letteraria con brani scelti di viaggiatori illustri, volendo potrebbe anche non essere letto: la strada si segue sfogliandolo, passando da un dipinto a una scultura a un’acquaforte.
Iperturismo è parola nuova; significa piazze piene, code infinite per i musei, traffico a passo di lumaca, aeroporti nel caos, chiasso, movida che ferisce le città d’arte e altera i lungomari. Il problema – che però rivela la sempre massima attrazione dell’Italia e dà origine a un giro economico fondamentale – non ha soluzioni semplici, in grado di mettere d’accordo tutti. Ma mentre se ne discute, e impazza l’estate, fa una certa impressione ritornare al turismo aristocratico che fu. Non a cavallo di chissà quale macchina del tempo, ma grazie al curatissimo ed elegante volume Grand Tour d’Europa, edito da Franco Maria Ricci (in collaborazione con la casa dei brand di lusso Van Cleef & Arpels), ricco di illustrazioni e con i saggi di Nicholas Foulkes, Fernando Mazzocca e Attilio Brilli.
Il libro contiene anche un’antologia letteraria con brani scelti di viaggiatori illustri, da Chateaubriand al marchese De Sade, da Madame de Staël a Henry James, da Edward Gibbon a John Ruskin con altri nomi eccellenti impegnati in quel rito di passaggio (per diventare realmente uomini e donne di cultura) che bisognava praticare, nonostante le immani fatiche degli spostamenti, le incertezze dovute alla poco tranquilla Europa divisa tra una miriade di Stati in contrasto e percorsa da un altro genere di «turisti»: i briganti e le soldataglie. Il Grand Tour, che ebbe il suo periodo d’oro tra gli anni Quaranta del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, aveva come destinazione finale la città di Roma, ricca di rovine fatiscenti, lontana dall’essere la metropoli odierna, men che mai la capitale del mondo quale fu nell’antichità. Non solo Roma, ma tutta la penisola italiana, e il Mediterraneo che la bagna, erano l’obiettivo degli aristocratici che si mettevano in viaggio, per lunghi mesi. Andare alle radici della civiltà, tornare con impressioni, scritti, disegni, reperti, conoscenze ne faceva uomini contemporanei, europei fino al midollo, quando essere europei significava qualcosa di più profondo che aderire alle direttive di un Parlamento comunitario di là da venire.
Il grande viaggio era anche esplorazione di angoli sconosciuti, pratica di peccati, libertà di costumi sessuali (molti damerini, si direbbe oggi, erano fieramente fluidi). Scrive Foulkes, nel saggio che apre il volume nato su progetto editoriale di Edoardo Pepino: «I grandtourists camminavano sulle stesse pietre calpestate da Cesare, Augusto e Pompeo, meravigliandosi di un mondo tanto lontano, antico e straordinario che, anche nella sua decadenza, eclissava l’epoca in cui vivevano». Quella meraviglia la prova ancora chi arriva Roma per la prima volta, sebbene oggi la città sia invasa da truppe di visitatori spesso senza cultura di base, o con l’incultura dello sfregio, che spinge a incidere il proprio nome sui mattoni del Colosseo o a bagnarsi nella fontana di Trevi, senza essere Anita Ekberg.
Ma il Grand Tour era un itinerario, una somma di itinerari, di caratura europea. Non si esauriva negli splendori – diventati poi fulcro della corrente neoclassica – dell’espressione geografica chiamata Italia (copyright Metternich). Toccava Baden Baden e Carlsbad, i colti turisti delle classi agiate sfarfallavano tra palazzi nobiliari e radure Sturm und Drang, talvolta navigando i fiumi su appositi e veloci battelli, nello spirito dell’avventura. Poi le guerre napoleoniche rallentarono il fenomeno, ma basta il nome di Goethe per tramandare alle generazioni che seguirono la filosofia del Grand Tour. Con Viaggio in Italia, pubblicato in due volumi nel 1816-17, nei quali raccontava l’esplorazione coltissima della penisola, effettuata tra settembre 1786 e giugno 1788 (appena un anno prima che la rivoluzione francese sconvolgesse il Continente), il genio tedesco rappresenta il punto più alto di una pratica ancora di gran fascino. Le richieste di viaggiatori e collezionisti diedero forza a generi pittorici prima considerati minori, come le vedute delle rovine e dei paesaggi. Nel volume di cui stiamo trattando, è Fernando Mazzocca a inquadrare arte e artisti durante il Grand Tour, a partire da Giovanni Battista Piranesi, le cui acqueforti costituivano preziosi souvenir per gli esigenti turisti.
Mazzocca ricorda Cesare De Seta, studioso per il quale la comunità dei viaggiatori illustri, in pieno Secolo dei Lumi, era «la più numerosa e libera accademia itinerante che la civiltà abbia mai conosciuto, una comunità culturale di persone unite dagli stessi ideali e dalle stesse aspirazioni, che sembravano condividere quanto aveva sostenuto il dottor Johnson, convinto che quasi tutto ciò che ci pone al di sopra dei selvaggi proviene dalle coste mediterranee». Parole simili autorizzerebbero una sorta di orgoglio nazionale, ma non è il caso di gingillarsi: paragonare l’oggi a quei tempi lontani non ha alcun senso. Anche sociale: mentre Goethe e Johann Joachim Winckelmann, John Ruskin e Gibbon – quest’ultimo ideò in viaggio la sua monumentale Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano – studiavano e rimanevano incantanti davanti all’aura del passato, malattie, condizioni di lavoro, ingiustizie, ignoranza e povertà mietevano vittime di cui nessuno si accorgeva.
Non il principe Ludovico che felicemente indugia su un’aragosta in una locanda romana; non Goethe ritratto nella campagna della Città Eterna da Wilhelm Tischbein; non i nobili fiorentini impegnati nel gioco del biliardo, visibili nel tavolo intarsiato in pietra dura, su disegno di Giuseppe Zocchi; non i gentiluomini in gondola nei dipinti di Bernardo Bellotto, che ci portano in un’altra capitale del Grand Tour: Venezia. Ma, come si dice, c’è da perdere l’orientamento, o da chiedere i sali per contrastare la sindrome di Stendhal, se ci si immagina turisti curiosi e capienti (il viaggio costava una fortuna, mettendo in conto raggiri e furfanterie varie) di quell’epoca che non tornerà.
Prima di arrivare in Italia, e sostare in quelle che oggi si chiamano città d’arte e sono disponibili in Rete in ogni programma di viaggio, i damerini e nobili del tempo – ne scrive Attilio Brilli, ponendo attenzione sul lato transalpino del Grand Tour -, si lasciavano catturare dalle meraviglie di Parigi e Versailles, dai castelli della Loira, dal Reno con la città di Colonia e il suo Duomo. Tappe che riguardavano soprattutto i viaggiatori provenienti dalle isole inglesi, che forse già allora dicevano, secondo una vecchia battuta-stereotipo, «C’è nebbia sulla Manica, il Continente è isolato», ma affrontavano carichi di curiosità ogni lembo di terraferma, meglio se con i segni d’un passato glorioso. Il volume pubblicato da Franco Maria Ricci – editore e collezionista scomparso nel 2020 – può paradossalmente non essere neppure letto: il viaggio si fa sfogliandolo, passando da un dipinto a un’acquaforte, da una scultura a un medaglione, da tavole di osservazioni geologiche e vulcanologiche ad acquerelli evocativi. Tutte immagini sufficienti per sprigionare l’atmosfera del Grand Tour e rituffarsi, quasi protetti da un talismano, nell’iperturismo che mette a dura prova l’Italia delle vacanze.
