Parigi è più mai al centro della scena: in un’estate da record turistici, unisce incanti di ieri e nuove mode. A raccontarla, due saggi-guide che ne percorrono storia, suggestioni e (ineguagliabili) contraddizioni.
Avrebbe comprato il Bleu d’Auvergne venato di verde o il Brin d’amour «il cui biancore trattiene fili di paglia secca appiccicati», senza essere estenuato dalla fila. Avrebbe risolto i suoi problemi di acquolina, Italo Calvino, nella formaggeria di rue de Sèvres descritta in Palomar, se avesse scaricato la app Affluences per gestire le code a Parigi: stima il tempo di attesa nella metropoli tornata al centro dello charme europeo, un sollievo. Basta consultare la app per sapere se è il caso di mettersi in pista per entrare al Louvre o semplicemente alle Halles o nei bagni dell’Hotel Costes disegnati da Philippe Starck. Ed evitare la maledizione del serpentone infinito ovunque. Con il rischio che una gentile ma inflessibile signorina in divisa sussurri al turista sfinito dopo la traversata del deserto: «Fermé».
Eppure nella tecnologia digitale c’è una controindicazione che a Parigi si trasforma in vendetta consumata calda, implacabile. Come spiega la scrittrice e consulente editoriale Eleonora Marangoni nel libro Paris, s’il vous plaît (Einaudi). «Fa senza dubbio risparmiare del tempo ma riducendo l’imprevisto si porta via qualcos’altro. Nel corso di quelle interminabili file ho imparato a giocare a Sudoku, origliato discorsi patetici e memorabili, ascoltato il suono di lingue sconosciute, sentito nominare per la prima volta il regista Chris Marker, messo a punto l’itinerario di un viaggio nel Sud della Spagna, letto per intero Fuga senza fine e Bonjour tristesse, studiato da cima a fondo interi numeri dell’Officiel des spectacles, conosciuto Benjamin, un insegnante di matematica che mi ha ospitato sotto il suo ombrello una domenica in cui si era messo a piovere e che un paio di anni fa ha sposato Thomas, mio compagno di corso all’università».
Parigi sempre nuova ma immortale. La Parigi dal profilo macroniano che ha doppiato Londra, surclassato Madrid, accarezzato Milano come una sorellina. E in questa estate dei record turistici torna a risplendere, a lanciare mode, a far luccicare scorci, a riempire gli schermi 127 anni dopo i fratelli Lumière. Città diabolica, non si parla che di lei. Non poteva che finire lì la svampita Lily Collins di Emily in Paris. Non poteva che prendere forma lì la serie di Netflix Dix pour cent (Chiami il mio agente!), con i manager degli attori a far luccicare i coltelli, a psicanalizzare Jean Dujardin, a mettere a letto presto Isabelle Adjani.
Parigi è sempre Parigi. Cerchi l’ultramoderna novità ma finisci al Père Lachaise sulla tomba di Jim Morrison; fiuti nuovi rivoli di street art alla Porte de Clignancourt ma ti fai rapire ancora una volta dalle Ninfee di Claude Monet all’Orangerie; insegui tendenze letterarie afro-islamiche o i luoghi dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, però alla fine ti siedi al Café de Flore come Jean-Paul Sartre (o Simone de Beauvoir) per un croque monsieur o un uovo sodo con cetrioli. E quando ti alzi provi a rubare il posacenere di culto.
Ha ragione Humphrey Bogart. Quando sussurra a Ingrid Bergman «We’ll always have Paris» sta esprimendo un sentimento universale. «Avremo sempre Parigi», oltre che come ricordo del Rick Blaine di Casablanca, vale anche come previsione per il futuro. Lo spiega bene ancora Marangoni nel suo libro che diventa, pagina dopo pagina, una modernissima guida. Lei ha vissuto per anni a Parigi, arrivando da Roma con una scorta di parmigiano e i sette volumi della Recherche avvolti uno a uno nei maglioni. «Significa che Parigi è sempre lí, che vive e intanto ci aspetta senza cambiare mai davvero. E difatti alla fine, malgrado le rénovations, i grands travaux, la crise, le grèves, les manifs, i gilets jaunes, perfino nonostante gli attentati uno ci torna e la riconosce; è sempre la stessa».
Lo sguardo è molto parisien. «Magari hanno chiuso una fermata del métro per lavori, ma la 7 sa sempre di zolfo e uova marce. Magari hanno appena inaugurato una nuova, avveniristica fondazione alle porte della città, ma nella fontana del Luxembourg i bambini giocano con gli stessi voiliers in legno di 140 anni fa. Magari in giro si vedono sfrecciare le trottinettes (gli scooter), ma nei palazzi la maggior parte delle scale è sempre di legno grezzo, senza ascensore, da salire e scendere a piedi gradino per gradino. Magari la brasserie sotto casa è diventata un poke bar, ma poco più in là ecco l’immancabile bistrot con le sedie di rattan intrecciato e la lavagnetta che annuncia in corsivo i plats du jour».
Sono gli stessi da decenni, immancabilmente accompagnati «da smisurate foglie d’insalata che è maleducato tagliare ma impossibile mangiare senza ungersi fino alle orecchie». Parigi va sorseggiata come un pastis. Va vista dal finestrino dell’autobus con capolinea alla Gare Saint-Lazaire, dove Raymond Queneau descrive in 99 modi diversi la stessa scena in Esercizi di stile. Se si vuole incontrare un mix emozionale di spiritualità e passato non si può rinunciare al cantiere di Notre Dame; il sagrato è riaperto anche se lontano dai 12 milioni di visitatori degli anni d’oro. Le scaffalature provvisorie che sostengono le guglie ci dicono tutto del dramma di fuoco del 2019, la corona di spine salvata dall’incendio è assurta a simbolo della cristianità. E il mondo attende la primavera 2024 quando (a cinque anni dal rogo) la cattedrale tornerà uno degli epicentri religiosi del pianeta. Per recuperare lo spirito rivoluzionario è d’obbligo cercare i cantieri stradali fra Montparnasse e la Senna, verso Boulevard Saint-Michel, dove sotto l’asfalto riposano i sampietrini delle ribellioni, l’arma del popolo dai tempi dei Miserabili, soppesati da Gavroche e lanciati dai casseurs del Sessantotto.
Ce lo racconta un altro libro dal titolo illuminante: Flâneuse, sottotitolo Donne che camminano per la città, scritto da Lauren Elkin (e pubblicato da Einaudi), scrittrice newyorchese innamorata dei viaggi che adora letteralmente «fare flanella», passeggiare senza meta a Venezia, Londra, Tokyo, New York e certamente Parigi. Lei preferisce andare incontro alla Storia, accarezzarla e prenderla in contropiede con dettagli che neanche Alessandro Barbero. Invita tutti alle Tuileries a rinfrescarsi la memoria. «È il 1848. Ancora una volta Parigi è in preda all’ardore rivoluzionario, a un’ondata di indignazione che si propagherà per tutta l’Europa, e questa volta la mossa iniziale dei rivoltosi funziona. Il 24 febbraio re Luigi Filippo abdica e, con l’aiuto del suo dentista americano, scappa in Inghilterra con la regina, tutti e due vestiti da normali cittadini, con il nome di Mr e Mrs Smith. Il popolo non perde tempo, attacca il palazzo delle Tuileries, depredando, saccheggiando e distruggendo. A turno siedono sul trono prima di lanciarlo fuori dalla finestra, poi lo bruciano nel luogo dove sessant’anni prima c’era la prigione della Bastiglia. Due giorni dopo viene dichiarata la Seconda Repubblica».
A Parigi è accaduto tutto ma potreste non avere voglia di nulla. Come diceva Calvino che ci ha vissuto per 13 anni, «non è un luogo, è una gigantesca opera di consultazione, è una città che si consulta come un’enciclopedia». I due libri ci portano attraverso tutto questo con una leggerezza bohémienne che moltiplica il fascino. Mai dimenticandosi della dimensione a geometria variabile dell’antica Lutetia di Asterix. Oggi è quella dei quartieri, dei pizzicagnoli, dei bouquinistes, degli angoli appartati, delle stradine senza marciapiede, degli appartamenti da 15 metri quadri. Lo teorizzava Jacques Prévert: «Parigi è piccola, sta in questo la sua grandezza».
Poi bisogna concludere, serve un finale e non può essere allo stadio Saint-Denis dove la Francia del pallone rinnova in una dimensione multietnica il sogno di grandeur. Quel quartiere rimane un focolaio. Oltre le partite c’è il disagio, il fuoco sociale sotto la cenere. Quelli che Nicolas Sarkozy definì «racaille» (feccia) perché incendiavano le Peugeot parcheggiate, sono lo specchio di un problema di integrazione che morde e riguarda l’agenda della polizia. Allora meglio chiudere con lei, la dea bullonata. E affidare la dissolvenza a François Truffaut che di modellini della Tour Eiffel era un collezionista ai limiti del fanatismo. Scrive Marangoni: «Intorno ai quarant’anni, non appena il successo glielo permise, si trasferí in un appartamento al 10° piano nel XVI arrondissement solo per contemplare ogni giorno quella che lui chiamava la sua migliore fonte di ispirazione. La sceneggiatura di uno dei suoi primi cortometraggi era la storia di una giovane che arriva in città, chiede a un parigino di portarla in cima alla torre, e man mano che sale i vari piani da ragazzotta di provincia si trasforma in una vraie parisienne, capelli corti, un filo di rossetto, tacchi alti e un vestitino Guy Laroche». Il cortometraggio non venne mai realizzato, non ce n’era bisogno. Parigi lo replica live tutti i giorni.
